da “Il tempo della fine – Prossimità e distanza della figura di Gesù” di Giancarlo Gaeta, ed. Quodlibet
Nel Vangelo di Giovanni la questione relativa alle condizioni per la sequela di Gesù non è posta, come nei Sinottici, direttamente in termini di fede nella sua persona: «Ma voi, chi dite che io sia? (Marco 8, 29), bensì in termini di scelta fondata su una comprensione di chi Gesù sia a prescindere dalle denominazioni correnti nella cristologia della tradizione apostolica attestata dagli altri evangelisti, che in lui riconosceva innanzitutto il Messia’. Dunque una scelta difficile da fare e ancor più difficile da perseguire nella misura in cui nel corso del Vangelo le affermazioni di Gesù su se stesso si fanno più sconcertanti e in definitiva inaudite. Il sesto capitolo è quello che forse meglio illustra questa esigenza radicale: Gesù afferma se stesso come il pane di vita disceso dal cielo di cui occorre nutrirsi per vincere la morte e vivere in eterno; e che meglio rappresenta le reazioni da parte di gruppi specifici di interlocutori che prendono posizione in quanto tali, mentre in precedenza il confronto era avvenuto piuttosto con dei singoli: Nicodemo, la Samaritana. Ad essere messo in questione è in effetti l’intero pubblico degli ascoltatori articolato in alcune componenti principali che, costrette a prendere posizione, si collocano da sé a distanze più o meno grandi rispetto all’adesione incondizionata alla pretesa di Gesù. Ora, la cosa è tanto più rilevante perché qui non sono presi di mira i gruppi con cui storicamente Gesù si era confrontato: farisei, sadducei, zeloti, bensì realtà contemporanee all’autore del Vangelo sul finire oramai del primo secolo, vale a dire espressioni del giudaismo della diaspora, nonché di una pluralità di comunità cristiane attestate su posizioni distinte se non conflittuali per quanto concerne la cristologia e l’ecclesiologia. Il testo è pertanto suscettibile sia di una lettura teologica, cristologica in particolare, sia di una lettura storica. Di questi due livelli di lettura ho scelto di privilegiare qui il secondo, che è più difficile da cogliere per la scarsa attenzione che per lo più si presta a rilevare la situazione vitale in cui i testi evangeli ci sono stati redatti, situazione che può invece risultare assai istruttiva circa il permanere di problematiche fondamentali nel la storia del cristianesimo fino ai nostri giorni. Penso che sarebbe comunque importante apprendere a riflettere sugli scritti delle origini cristiane seguendo un duplice movimento di attualizzazione e di distanziamento, vale a dire di confronto col proprio tempo e insieme di riconoscimento, per quanto possibile, dei tratti storici che li specificano. Senza di che il messaggio che si crede di cogliere in essi tende ad appiattirsi talvolta fino all’ovvietà per mancanza di profondità storica, e dunque per l’impossibilità di un confronto vitale tra condizioni che tempo e spazio separano. E non tanto per via dei millenni, se già gli evangelisti, a pochi decenni dalla morte di Gesù, furono ben consapevoli di trovarsi in una situazione altra rispetto a quella che intendevano narrare: altra, cioè del tutto prossima e del tutto diversa allo stesso tempo. Questo vale soprattutto per il vangelo giovanneo, poiché in esso l’intento di mantenere attiva la memoria della vicenda fon dante di Gesù si coniuga strettamente con una specifica comprensione dei contenuti della sua predicazione, che per essere esposta ha comportato l’uso di forme letterarie (discorsi e dialoghi) e un linguaggio teologico estranei alla tradizione sinottica, nonché incompatibili con forme e contenuti della predica zione popolare di Gesù (si pensi all’uso delle parabole, mentre in Giovanni s’incontrano piuttosto delle metafore). L’interesse dominante non va perciò all’evidenza sensibile: ciò che Gesù ha fatto e detto – seppure con l’attenzione rivolta al presente della comunità – bensì all’enunciazione del significato più alto dell’evento cristologico, che riconosceva in Gesù non più soltanto il Messia, ma altresì il Figlio di Dio preesistente. Sullo sfondo di questo Vangelo occorre perciò ipotizzare la figura di un teologo della statura di Paolo, che al pari di questi non ha esitato a rileggere la tradizione storica su Gesù in funzione del la formazione di una comunità cristiana modellata su una comprensione cristologica che anticipava quello che sarebbe stato il grande e conflittuale dibattito teologico dei secoli seguenti, e non senza conseguenze sul modello di vita ecclesiale rispetto a quello, destinato a imporsi storicamente, attestato da Matteo e Luca. Torniamo dunque alla lunga sequenza del sesto capitolo, in cui Gesù si confronta dapprima con la folla che aveva assisti to al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei sequenza con i giudei», con un numeroso gruppo di discepoli pesci, poi in e infine con i Dodici, ma, come vedremo, è sottinteso altresì il riferimento a un ulteriore gruppo cristiano che implicitamente fa da unità di misura per la fede in Gesù degli altri gruppi, vale a dire la comunità giovannea.
Si noti che la reazione di questi seguaci alle parole sul pane di vita non è di ostilità, ma di sconcerto: «E dura questa parola, chi la può ascoltare! 11 riferimento immediato e alle afferma zioni sacramentali, ma Gesù rincara subito la dose andando al cuore del dissenso, vale a dire la fede nella preesistenza e l’opposizione spirito-carne: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima? È lo spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla (6,60-63). Qui l’evangelista sta ribadendo una concezione della fede cristiana che fa perno sul convincimento – già esplicitato a Nicodemo (6,6) – che soltanto chi possiede lo spirito è in grado di inoltrarsi nel mistero del Cristo e di renderlo intellegibile, secondo la promessa stessa di Gesù al momento del congedo dai discepoli: Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora non potete sostenerle. Quando verrà lui, lo Spirito di verità, vi condurrà alla verità intera (16, 12 sg.). Direi che è precisamente questo convincimento a distinguere la comunità giovannea dalle altre chiese nella misura in cui queste si attengono alla carne, vale a dire alla vicenda umana di Gesù ricompresa si alla luce dalla fede nella resurrezione, ma non an cora o non adeguatamente dispiegata in tutto il suo significato sotto l’ispirazione dello Spirito di verità, alla cui opera l’evangelista attribuisce un’importanza decisiva per una comprensione del mistero cristiano che non si arresti all’immediatezza della fede nella resurrezione (si pensi a Tommaso che ha bisogno di toccare per credere).
Occorre però rilevare la distinzione – e con questo arriviamo al versetto su cui siamo impegnati a riflettere che l’evangelista ha operato nelle rapide battute conclusive tra «i discepoli che si tirano indietro» e i «Dodici», che per bocca di Pietro con fermano la loro sequela nel convincimento che Gesù è «il Santo di Dio. Un titolo che varia quello che lo stesso discepolo usa nell’episodio parallelo di Marco: Tu sei il Cristo (8, 29), dunque il Messia, ma qui forse con l’intento di accentuare l’intimità del Figlio con il Padre, accomunati nella santità. È questo un punto di contatto significativo della tradizione giovannea con quella attestata da Marco: agli occhi dell’evangelista il gruppo de gli apostoli, dunque le comunità che alla tradizione apostolica si rifacevano attestavano una fede autentica poiché in definitiva è dai Dodici che Gesù anche secondo Giovanni prende congedo, aggiungendo il comandamento nuovo dell’amore reciproco e assicurandoli dell’assistenza dello Spirito Paraclito. Tuttavia non si può ignorare che l’intero Vangelo è attraversato da una contrasto che oppone a Pietro la figura anonima del Discepolo prediletto da Gesù, a cui è attribuita una maggiore prontezza nel credere ed è riconosciuto un più stretto legame con lui. E come se l’evangelista avesse voluto rappresentare nelle due figure due forme di cristianesimo, entrambe autentiche, ma non sullo stesso livello per quanto concerne il grado di conoscenza del mistero cristologico. E anche nel nostro caso la domanda di Gesù ai Dodici è formulata in modo tale da esprimere il timore che la risposta sarà negativa. A sua volta la risposta di Pietro unisce il riconoscimento di un legame che non può essere più sciolto: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, con una insistita dichiarazione di fede nella messianicità di Gesù che non tiene conto delle afferma zioni sulla sua origine divina e sull’eucarestia che avevano scandalizzato gli altri. La fede dei discepoli che Gesù stesso aveva scelto esprime si la loro adesione incondizionata al Cristo, ma non una comprensione adeguata di chi egli è. E in effetti l’episodio si conclude su una nota amara: Gesù accoglie la confessione di Pietro a nome dei «Dodici», ma fa presente che proprio uno di loro lo avrebbe consegnato alla morte. A sottolinearlo è a posteriori l’evangelista, come a voler rilevare negli apostoli un limite di comprensione che avrebbe condotto Giuda al tradimento e gli altri ad abbandonare Gesù nell’ora più oscura, eccetto il Discepolo prediletto, l’unico che secondo Giovanni compare ai piedi della croce.
Due considerazioni mi sembra s’impongano in conclusione. Innanzitutto il carattere plurale del primo cristianesimo, certo non esente da confronti aspri, ma sostenuti da una ricerca libera dell’identità cristiana. Sappiamo dello scontro di Paolo con la comunità di Gerusalemme e del prezzo che egli dovette pagare per affermare la legittimità del proprio «evangelo senza rompere con Giacomo e Pietro. Quindi, nella seconda metà del secolo, l’apparizione di una pluralità di esposizioni dell’annuncio sotto forma di racconti di ciò che Gesù aveva fatto e detto, i Vangeli, ciascuno con una accentuazione pro pria e uno specifico tentativo di comprenderne il significato in rapporto alle esigenze particolari della comunità di riferimento. In questo contesto non sorprende la singolarità del Vangelo di Giovanni, né il contrasto con la forma di cristianesimo che sul finire del primo secolo si stava imponendo come la più adatta strutturare l’identità cristiana e a salvaguardarla nei confronti del mondo esterno, vale a dire la Chiesa fondata su Pietro e i Dodici, oramai in via di istituzionalizzarsi attraverso l’affermazione degli uffici ecclesiastici. Il rifiuto giovanneo nasce e si sostiene sul convincimento che, per quanto legittima, la forma petrina esteriorizzava il contenuto essenziale dell’esperienza cristiana, che avrebbe dovuto consistere nell’unione con Gesù nell’amore tra i fratelli. Tutto il resto per l’ispiratore di questo Vangelo è secondario e gli stessi sacramenti non conseguono ad un atto istitutivo di Gesù, ma sono prolungamenti della potenza manifestata durante il ministero quando egli apriva gli occhi ai ciechi (battesimo come illuminazione) e nutriva gli affamati (eucarestia come cibo)». Ora, a me sembra che in questo modo di vivere la fede cristiana non vi sia nulla di estremo, una sorta di radicalismo che non terrebbe conto delle esigenze di una vita religiosa ordinata e controllata. Vi si esprime piuttosto l’esigenza di dare significato pieno all’evangelo nella misura in cui è mantenuta ferma la continuità tra Gesù e i discepoli nella concretezza degli atti. Così, il passaggio immediato dal mira colo dei pani all’insegnamento sul pane di vita è tutt’altro che occasionale; l’atto di sfamare era già un segno sacramentale, ma per vederlo come tale occorre essersi nutriti spiritualmente della carne del Figlio di Dio, occorre cioè essersi uniti a lui, sentire come lui, agire come lui, altrimenti si opera una scissione tra il dentro e il fuori, e ci si trova esposti al pericolo della mondanizzazione. In questo senso direi che il Vangelo di Giovanni esprime la forma mistica della fede cristiana a fronte della forma istituzionalizzata. A fronte, non contro, dunque come stimolo ad andare oltre, a non smarrire la verità dell’evangelo. La stessa preoccupazione di Paolo, ma ora radicata meno su una conce zione teologica innovativa e più su una comprensione profonda degli atti e delle parole del Figlio di Dio che, certo, distanzia ulteriormente il racconto evangelico dalla realtà storica, ma la illumina dall’interno a vantaggio più dei credenti come singoli e come comunità d’amore che non delle chiese istituite. A di stanza di venti secoli, Simone Weil ritenne di dover prendere atto che è come se con il tempo si fosse finito col considerare non più Gesù, ma la Chiesa come Dio incarnato quaggiù»; una situazione soffocante a cui soltanto i mistici si sottrarrebbero nella misura in cui accettano l’insegnamento della Chiesa non come se fosse la verità, ma qualcosa dietro la quale si trova la verità, cosicché è come se sotto la medesima denominazione di cristianesimo e all’interno della stessa organizzazione sociale vi siano due religioni distinte, quella dei mistici e l’altra. Trovo impressionante la prossimità di questa presa di posizione critica con quella di Giovanni. Con la differenza che al tempo dell’evangelista l’identità cristiana si stava costruendo nel confronto tra comprensioni diverse ma in certa misura componibili, e che pertanto la posizione mistica poteva ancora essere recepita come necessaria ad equilibrare la nuova visione del mondo; tant’è che, seppure con significative resistenze, il Vangelo di Giovanni fu riconosciuto come ispirato e accolto nel canone del Nuovo Testamento. Mentre dobbiamo prendere atto che storicamente la logica istituzionale si è imposta nella Chiesa come pressoché esclusiva fino a rendere secondario il riferimento stesso all’evangelo. Resta dunque attuale in ogni tempo quella interrogazione dolente di Gesù: «Volete andarvene anche voi?, come a dire: se non capite, è meglio che ve ne andiate insieme a quelli che hanno avuto l’onestà di riconoscere che questa parola è dura e pressoché impossibile da ascoltare.