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Il figlio del funzionario gentile: il significato di dio e della fede

da “Il quarto Vangelo. Racconti di un mistico ebraico” di John Shelby Spong

Nicodemo, descritto come un «fariseo e un capo degli ebrei» va da Gesù di notte e, incapace di capire il suo messaggio, scompare nuovamente nell’ombra. La donna samaritana al pozzo incontra Gesù nella luce limpida del sole di mezzogiorno e diventa un’evangelizzatrice che porta i samaritani nell’alleanza. Adesso l’autore di questo Vangelo introduce un altro personaggio simbolico.

Anche lui non ha nome, è chiamato solo «un funzionario» di Cafarnao. E un gentile? E motivo di discussione, ma io sono convinto di si. Questa designazione è di sicuro in armonia con la trama. Il funzionario ha un figlio malato. Questa narrazione ricorda una storia raccontata sia da Matteo (8,5-10) sia da Luca (7,1-10), nella quale il funzionario è un «centurione», cioè un soldato romano a capo di un’unità di cento uomini, e il suo servo, non il figlio, è guarito a distanza da Gesù. In quei racconti Gesù commenta che non ha trovato una fede così grande «in tutto Israele» come in quel centurione. Ci sono piccole differenze in ciascuna delle storie, ma ambedue sembrano riflettere un’esperienza comune. E ragionevole pensare quindi che, alla luce di queste storie cosi simili, l’uomo sia un gentile. Questo assunto, inoltre, ci aiuta a riconoscere come l’autore del quarto Vangelo dia forma a questo personaggio in funzione del suo genio interpretativo. Giovanni userà questo funzionario gentile per confrontare l ‘enorme abisso tribale che separa, sia fisicamente sia emotivamente, gli ebrei dai gentili. Gesù, con il suo appello per una nuova umanità, deve affrontare e superare questa barriera.

Giovanni inserisce comunque in questa storia gli altri suoi temi e al contempo fa dare a Gesù una nuova definizione di Dio e della fede. Tutto questo fa del «funzionario gentile» una figura cruciale nel quarto Vangelo.

In questa narrazione, Giovanni fa ancora una volta riferimento al resoconto del matrimonio di Cana in Galilea. Lo fa riportando Gesù nel luogo del matrimonio, che identifica nel testo come il posto dove «aveva cambiato l’acqua in vino» (Gv 4,46). Anche alla fine di questa narrazione mette l’episodio narrato in rapporto a quello precedente delle nozze di Cana in Galilea, collegandoli numericamente. L’autore afferma che «questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea» (Gv 4,54).

Questa storia realizza tre cose. Prima di tutto, nell’identificazione di questo funzionario con un gentile troviamo un altro aspetto del tema di Gesù distruttore di barriere, che abbatte i muri difensivi dietro ai quali noi uomini ci nascondiamo e che servono a diminuire la nostra umanità. E al riparo delle nostre recinzioni tribali che noi, esseri umani, sviluppiamo i nostri pregiudizi che soffocano la vita. Non si può essere interamente umani se si continua a violare l’umanità dell’altro, che ciò che tutti i pregiudizi c’incoraggiano a fare.

In secondo luogo, Giovanni elabora in questa storia una visione di Dio del tutto diversa, non come una divinità esterna da cui vogliamo ricevere protezione e che rispettiamo e perfino temiamo per il suo potere, ma come presenza permeante, che ci chiama a superare i nostri limiti.

In terzo luogo, l’autore intende separare la fede dall’idea di aderire a certe formule. Trasforma così la fede dall’atto intellettuale di assenso a un enunciato, ad essere la fonte di fiducia che invita la «persona di fede» a entrare in una nuova esperienza della realtà. Così questo ufficiale gentile è ben adatto alla trama di Giovanni e alla sua visione teologica. Affrontiamo adesso questa storia, esaminando questi tre temi.

La separazione tra gli ebrei e i gentili era, come tutti i confini tribali, una tecnica di sopravvivenza, che gli ebrei fissarono, a partire dall’esilio, come elemento definitorio della loro identità. Mentre il tribalismo è una caratteristica identificatrice di ogni forma di vita umana e alimenta ogni rivalità umana, l’esilio degli ebrei a Babilonia istallò la separazione tra ebrei e gentili nel profondo dell’essere di ogni ebreo. È tipico della vita umana rispondere al proprio onnipresente bisogno di sicurezza mostrando paura alla presenza di chiunque sia «diverso». Questa paura è provocata dall’incapacità d’interpretare quei comportamenti che non sono ancora approvati dalle norme che governano la vita tribale e nelle quali i membri della tribù sono stati acculturati. Per questo motivo appartiene alla natura biologica della vita umana che si reagisca a uno straniero con un intenso sospetto. Gli stranieri parlano una lingua che non capiamo, perciò non sappiamo vagliare le loro parole e temiamo le loro motivazioni. Quando non capiamo le loro parole, cresce e si alimenta la nostra paranoia. Gli stranieri che non appartengono alla nostra tribù hanno anche caratteristiche etniche differenti. Il modo di pensare tribale definisce sempre le caratteristiche della propria etnicità come «normali», suggerendo immediatamente che chi è diverso è «anormale». Gli stranieri hanno culti diversi e, dato che il significato primario e primitivo di culto è quello di sollecitare Ia protezione divina nei nostri confronti, un culto che esula dalle nostre norme può metterci a rischio di perdere la protezione della nostra divinità a causa della divinità di unaltra tribù, che poi potrebbe risultare malefica.

Per tutti questi motivi, la xenofobia è una tecnica di sopravvivenza umana naturale, presente in ognuno di noi. Non possiamo sbarazzarcene, perchè fa parte dell’essere umano. Possiamo sfuggirle solo sfuggendo i limiti della nostra umanità. Riuscire a sfuggirle, quindi, rispecchia un momento di trasformazione, nel quale superiamo un confine, entriamo in un nuovo livello di coscienza e cominciamo a percepire come la realtà umana sia una. Ciò non è facile perchè la sopravvivenza è il motore di tutta la vita e richiede sempre barriere dietro le quali trovare sicurezza.

La storia che ha prodotto l’identità nazionale ebraica è piena di illustrazioni di questa intensa Iotta per la sopravvivenza. La nazione ebraica è stata sempre sull’orlo dell’estinzione e perciò la realtà della sopravvivenza è impressa nel carattere ebraico. Gli ebrei erano stati costretti a sopravvivere come una classe inferiore o come schiavi nella terra d’Egitto. Dopo il riuscito esodo dalla schiavitù, avevano dovuto lottare per rivendicare per sè una storia anteriore alla schiavitù, in un paese che (come li aveva convinti la loro mitologia tribale) era stato promesso ai loro antenati dal loro Dio tribale. Per sopravvivere come popolo avevano dovuto tracciare delle forti linee di demarcazione che separassero gli ebrei dai non ebrei. Più in là nel corso della loro storia, quando furono conquistati dai babilonesi ed esiliati nel paese di Babilonia in seguito a un programma di trasferimento coatto, capirono che la loro unica speranza di ritornare nella loro terra nativa consisteva nel tenersi separati dai loro conquistatori. Ci riuscirono, come abbiamo notato prima, riesumando tre pratiche che li definivano, che diventarono il marchio fondamentale dell’identità ebraica: l’osservanza dello shabbat, l’obbligo di seguire una dieta kosher e la circoncisione.

Ciò che portò il popolo ebraico a erigere questi confini tribali estremi fu il senso della loro vocazione a essere il popolo attraverso il quale Dio avrebbe benedetto tutte le nazioni del mondo e la convinzione che solo attraverso la loro separazione radicale quella vocazione avrebbe potuto realizzarsi. Rendersi apertamente diversi da tutti gli altri non è una vocazione facile da sostenere per nessuna persona o gruppo. Essa attira il ridicolo, l ‘abuso, la ghettizzazione e infine fa sorgere un pregiudizio sanguinario, tutte cose che il popolo ebreo ha provato con il violento antisemitismo che ha segnato la storia occidentale ed è tuttora vivo. Ma è anche ciò che riuscì a farlo sopravvivere: esiste infatti un altro popolo che abbia potuto mantenere la sua identità nazionale perfino con l’eliminazione della propria nazione dalle mappe della storia umana dal 70 d.C., quando fu sopraffatto dall’esercito romano, fino al 1948, quando la sua patria è stata ristabilita dalle Nazioni Unite? Dove sono oggi glo Stati nazionali di quei popoli antichi come gli edomiti, i moabiti e i filistei? La maggior parte delle tribù scompare dalla storia umana una volta che le loro terre sono conquistate. Gli ebrei invece avevano un senso così indelebile sia dell’’ambito di Dio sia della loro intrinseca ebraicità, che hanno tenuto viva la loro identità per più di 1800 anni senza uno Stato nazionale, vivendo da stranieri e da esiliati nel paese di qualcun altro. Poche volte sono stati accolti volentieri e apprezzati, ma sono riusciti a far sopravvivere la loro identità nazionale. E per questo che la barriera che separava gli ebrei dai gentili al tempo di Gesù era così rigida e potente.

Nel corso del suo racconto, Giovanni ritrae Gesù prima mentre entra in contatto con il capo ebreo Nicodemo, che fu incapace di ricevere il suo messaggio, e poi con i samaritani, che, pur condividendo una storia comune con gli stessi patriarchi progenitori, erano profondamente alienati dagli altri ebrei. In quest’ultimo racconto, per i limiti storici della loro vita tribale furono trascesi e i samaritani ritrovarono unità grazie a una visione rivelatrice di quel che significa essere umani. Nell’episodio sotto esame (Gv 4,46-54), l’autore del Vangelo di Giovanni mette Gesù a confronto con I’enorme barriera che separava gli ebrei dai gentili. Questo è ciò che il personaggio conosciuto come il «funzionario gentile» doveva simbolizzare. Non era la sua condizione di gentile che lo portà a superare la barriera tribale. ma un bisogno profondo proveniente dalla sua umanità.

Questo funzionario gentile aveva un figlio malato, anzi proprio sul punto di morire. Gesù, anche se ebreo era diventato per quest’uomo l’immagine di un nuovo tipo di forza vitale, di una integrità, e addirittura di una presenza guaritrice cui lui anelava. Le persone che cercano una cura per una malattia giudicata fatale fanno di tutto per trovarla. L’amore ci spinge a scalare le più difficili montagne della vita e a superare ogni ostacolo in cerca della vita. Il funzionario gentile non capiva la fonte del potere di guarire che attribuiva a Gesù. ma andò da lui come un’ultima speranza per evitare un grande dolo­ re. Forse Gesù si sarebbe rivelato fonte di vita e di guarigione per suo figlio. Gettando al vento ogni precauzione, attraverso la divisione tribale. Il funzionario arrivo da Gesù pregandolo di andare a casa sua, di essere presente fisicamente accanto a suo figlio e così, forse, di rimetterlo in vita. Gesù rispose con una frase che all’apparenza sembra un giudizio e che quantomeno mette alla prova le speranze del funzionario: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il funzionario non desiderava impegnarsi in una diatriba, visto che i suoi bisogni avevano già superato le sue paure tribali. Così rispose ripetendo la sua supplica disperata: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia!».

L’autore di questo Vangelo vede in Gesù la presenza del Dio che è fonte di vita e di guarigione e che dona l’integrità, e fa capire attraverso la domanda del funzionario gentile come anche lui fosse arrivato alla stessa conclusione. Là dove era Gesù doveva esserci Dio, un Dio concepito in un modo profondamente diverso. Gesù, scrive Giovanni, riconoscendo quest’affermazione, rispose dicendo «Va’, tuo figlio vive».

Non ci fu contatto tra il bimbo malato, per il quale era stata fatta la supplica, e Gesù. Dio era presente in Gesù, ma non era limitato alla sua vita individuale. La presenza di Dio non poteva essere vincolata a un tempo e a uno spazio particolari. Dio era (ed è) una presenza mistica che pervade il mondo. In qualche modo questo funzionario gentile aveva compreso tale realtà.  Così questo Vangelo afferma che lui «credette» e ritorno a casa dove venne a sapere che suo figlio aveva cominciato a migliorare nel momento preciso, l’una, la settima ora, in cui Gesù gli aveva detto «Tuo figlio vive».

E molto difficile per le persone religiose concepire e accettare un Dio che non è vincolato. Nel corso della nostra storia abbiamo cercato di definire Dio come un essere particolare, anche se dotato di poteri soprannaturali. Definendo Dio come un essere, abbiamo dovuto collocarlo in un luogo. Col tempo si è pensato che questo luogo si trovasse sopra il cielo, in un universo fatto di tre livelli. Poi per questo Dio si sono dovute costruire dimore terrene che abbiamo chiamato «case di culto».

In seguito, abbiamo cominciato a sostenere che le stesse parole di Dio fossero contenute nelle parole delle nostre sacre Scritture. Poi ci siamo convinti che la stessa natura di Dio potesse venire definita nei nostri credo, dottrine e dogmi. Allora abbiamo costruito mitologie a proposito di ciascuna di queste creazioni umane, convincendoci che Dio sarebbe stato contento di vivere dentro i confini teologici e liturgici che avevamo creato.

Quando questi «idoli sacri» cominciarono a crollare sotto l’espansione della conoscenza umana, ci siamo comportati come se Dio fosse morto. Dal momento in cui abbiamo cominciato a comprendere l’infinità dello spazio, il Dio che abitava sopra il cielo è rimasto senza casa. Tuttavia abbiamo continuato a rivolgerci a Dio come «Padre nostro, che sei nei cieli». In seguito le Scritture, che una volta avevamo concepito come le parole letterali di Dio, cominciarono a essere viste come storie tribali e come interpretazioni umane.

Tuttavia, quando le leggevamo in pubblico durante il culto, abbiamo continuato a dichiarare: «Questa è la parola del Signore». Poi i credo, le dottrine e i dogmi, che, secondo noi, contenevano la rivelazione di Dio, cominciarono a essere visti come compromessi politici e culturali. Tuttavia in passato, per paura, avevamo investito queste forme umane di una tale autorità che coloro che le mettevano in questione vennero messi al rogo come eretici, mentre noi chiamammo «ortodosse» queste nostre formulazioni umane.

Allora il teismo, che era I’ espressione umana usata per designare Dio come un essere, comincio a morire e a noi tocco diventare atei o cercare un’altra definizione di Dio.

Nel contesto del misticismo ebraico, nel quale era immerso l’autore del quarto Vangelo, Dio era stato concepito in passato secondo I’analogia del vento e del nostro respiro, i quali animano la vita ma non possono essere catturati in una forma umana o da alcuna analogia umana. L’affermazione che non c’è nessun Dio sopra il cielo non significa che non c’è nessun Dio. II fatto che Dio fosse percepito come presente in Gesù di Nazareth non significa che il Dio sopra il cielo si fosse incarnato in Gesù di Nazareth, come suggeriscono i credo posteriori. Significa piuttosto che la presenza spirituale che chiamiamo Dio pervade l’universo, diventando udibile di tanto in tanto in una persona particolare nella quale si sente parlare «la parola di Dio» e diventando visibile in quella vita attraverso la quale è rivelata «la volontà di Dio». Noi cristiani abbiamo tentato per secoli di definire Dio in modo tale da essere sicuri di possedere questa presenza divina in forme controllabili, mentre il misticismo ebraico, come ogni misticismo, non poteva tollerare nessun limite umano.

Dio non era e non è limitato alla vita di Gesù Questo voleva dire il Vangelo di Giovanni attraverso la storia della guarigione del figlio del funzionario. Dio non è un essere presente in una vita in un certo momento o in un certo luogo, neppure in Gesù di Nazareth. Gesù pronunciò la parola. Il figlio del funzionario cominciò a guarire. La vita chiama alla vita, l’amore chiama all’amore, l’essere sorge dal Fondamento dell’Essere e in questa visione anche la separazione tra ebrei e gentili sparisce del tutto.

Per finire, vediamo che in questo episodio, imperniato sul personaggio del funzionario gentile, creatura non storica ma letteraria, la fede è ridefinita. Questo funzionario «credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino» (G 4,50). La fede non è credere in credo, dottrine, dogmi; la fede è confidare che la presenza divina è in ogni momento, in ogni domani. La fede è avere il coraggio di camminare nell’ignoto, confrontare qualsiasi cosa la vita ci dia senza che in questo processo la nostra umanità sia distrutta. Non esiste «la fede». Nessuna pretesa di possedere l’unico accesso a Dio, di essere l’unica autorità infallibile che può parlare in nome di Dio o di possedere la sola fonte corretta della rivelazione di Dio, è mai valida. Storicamente questi non sono stati nient’altro che idoli umani, ideati per garantirci la certezza religiosa che noi tanto desideriamo. La fede non dà, non può e non intende dare, tranquillità, sicurezza e certezza. La fede ci dà solo il coraggio di mettere un piede davanti all’altro e di camminare verso il futuro con integrità, anche se sappiamo che in questo mondo non c’è tranquillità, sicurezza e certezza. La fede ci chiama a prendere atto che facciamo tutti parte di questa ricerca che chiamiamo vita e che le nostre barriere di difesa che chiamiamo tribù, razza, etnia e perfino genere e identità sessuale non possono alla fine separarci gli uni dagli altri. La fede ci chiama a capire che essere umani significa essere partecipi di chi e di che cosa Dio è e, nell’unità con questa presenza di Dio, a constatare che la nostra comprensione della vita si accresce e che tutte le barriere umane diventano insignificanti. «Se avete visto me», dirà Gesù più avanti in questo Vangelo, «avete visto Dio» (Gv 14,9).

Quest’uomo gentile trovo nel Gesù ebreo l’accesso all’unità della vita, ad aspetti nuovi della nostra comune umanità. Credette, e questo gli permise di entrare in una nuova dimensione della realtà. Quella realtà che secondo l’autore di questo Vangelo era penetrata nella coscienza umana attraverso e nella persona di Gesù di Nazareth.

Non aveva niente a che fare con la religione; aveva tutto a che fare con la vita e l’essere.

Giovanni continuerà a raccontare la storia di Gesù usando personaggi di sua creazione. Per questo motivo aveva introdotto il suo Vangelo con una poesia che racchiude la sua concezione del «verbo», che opera attraverso la mediazione di ciò che lui chiama carne, ma non ne è vincolato. In Gesù il Verbo è diventato carne e abbiamo contemplato la gloria di Dio. Come disse Ireneo: «La gloria di Dio e l ‘uomo [e la donna] pienamente vivente». Essere pienamente vivente significa rinunciare alle barriere che ci definiscono. Questo è ciò che fu rivelato quando il funzionario gentile andò dal Gesù ebreo.