da “Il vangelo secondo Giovanni” di Carlo Maria Martini
Meditiamo le parole di Gesù, ponendoci di fronte alla situazione drammaticità della Chiesa del nostro tempo, sullo sfondo della quale si distende la nostra preghiera durante gli Esercizi Spirituali; perché la nostra preghiera, anche se è rivolta a Dio, è sempre inserita sullo sfondo di una situazione concreta.
La situazione che la Chiesa presenta ai nostri contemporanei è determinata dal rischio, dal l’imminenza grave di perdere valori importanti, o almeno creduti tali, senza accorgersene. Questa è la situazione di chi, se non sta attento e non sta più che in guardia, si vedrà privato di valori essenziali, senza neppure intendere il rischio in cui si trova. È in questa situazione, su questo sfondo estremamente serio, che ci deve sempre accompagnare, che noi ci esercitiamo in questi giorni nella preghiera. Il Vangelo di Giovanni è scuola di preghiera; se esaminato attentamente, esso ci presenterebbe una lunga serie di esempi di preghiere rivolte a Gesù: invocazioni, domande, suppliche, lamenti, grida d’angoscia, professioni di fede, proteste di amore, colloqui, sparsi un po’ lungo tutto il vangelo, che possono servire come esempio per formulare, per modellare il nostro colloquio con Dio.
Giovanni ci presenta non soltanto una serie di preghiere rivolte a Gesù, ma anche preghiere che Cristo rivolge al Padre. È il Vangelo che ci presenta la preghiera più lunga di Gesù, quella del cap. 17; e oltre questa, molte altre invocazioni, domande, lamenti, suppliche, che egli stesso rivolge al Padre.
Questa sera, però, dovrei intrattenervi brevemente su un terzo aspetto che caratterizza il Vangelo di Giovanni come scuola di preghiera; consideriamolo, cioè, in quanto ci riporta alcuni insegnamenti di Gesù sulla preghiera. Sono principalmente sei i detti di Gesù, a cui è affidato l’insegnamento giovanneo sulla preghiera; e tutti e sei si trovano nei capitoli 14, 15 e 16, cioè laddove alla parte enigmatica del Vangelo di Giovanni succede la parte illuminativa, o rivelativa. E anche questo è interessante: la preghiera appartiene al momento della rivelazione, è lo svelamento del vero rapporto con Cristo e col Padre. Quali sono questi detti, di cui il più importante è quello che abbiamo ascoltato nella lettura del Vangelo? Eccone le citazioni:
- Qualunque cosa chiederete nel mio nome la avrete»; e «se uno di voi mi chiede qualcosa nel mio nome la otterrà» (14, 13. 14).
- «Se rimanete in me e le mie parole in voi, chiede rete ciò che vorrete e l’avrete (15, 7).
- «Perché qualunque cosa chiediate al Padre voi lo otteniate» (15, 16).
Infine il brano che abbiamo ascoltato (16, 23 ss.). Come ordinare questi detti di Gesù sulla preghiera, in maniera da intenderne in qualche modo il senso? Propongo un ordinamento che a me dà qualche luce per capire ciò che Giovanni ci vuol dire su questo fondamentale atteggiamento cristiano. Raccolgo quindi i nostri testi sotto tre titoli:
- Mistero cristologico della preghiera.
- Mistero escatologico.
- Mistero trasformante.
Sotto il titolo di mistero cristologico della preghiera metto testi come 14, 13 ss.; 15, 16 e 16, 23-24, in cui l’insistenza è del tipo “chiedete nel mio nome”. La preghiera è qualcosa che si fa «nel nome» di Gesù. Più fàcile è il testo in 16, 23-24: «Ciò che chiederete al Padre nel nome mio, ve lo darà». Più difficile e oscuro il brano in 14, 13-14, in cui non si parla più di «chiedere al Padre», ma, almeno stando alla lettera del testo, di «chiedere al Cristo nel suo nome». È veramente imbarazzante da spiegare cosa voglia dire «chiedere al Cristo nel suo nome». E questo «chiedere» è così oscuro, che molti lo hanno criticato o omesso, appunto perché non sapevano spiegare cosa voglia dire «chiedere a me (al Cristo) nel mio nome». E penso che lo stesso versetto 14 è stato omesso da qualche manoscritto, appunto per le sue difficoltà. Ma è chiaro che anche qui, dove sembrerebbe che non si debba tirare in ballo il «nome» di Gesù, questo nome è presente: la preghiera è un mistero cristologico, qualcosa che non compiamo noi, ma compiamo nel Cristo, «nel suo nome».
Che cosa dunque vuol dire «chiedere nel nome di Gesù»? È quanto noi abbiamo tradotto nella formula, che conclude tutte le preghiere liturgiche: “Per Cristo nostro Signore”; questa è sì una formula, ma una formula che vorrebbe dire qualcosa di più. Per esempio vuol dire fiducia nella sua intercessione: egli è il centro del mistero di salvezza, è il Salvatore, e quindi ogni salvezza viene nel nome suo. Chiedendo al Padre in suo nome riconosciamo questa derivazione del mistero di salvezza.
C’è però un mistero ulteriore, che ci manifestano gli altri testi giovannei e che dobbiamo ora prendere in considerazione, notando l’aspetto escatologico della preghiera.
Alcuni testi, dunque, sottolineano il mistero cristologico, mentre altri il mistero escatologico; sono i versetti che abbiamo letto: “In quel giorno chiederete nel mio nome e non dico che io chiederò al Padre per voi” (16, 26). E ancora al v. 23 un’affermazione che sembra contraddittoria: “In quel giorno non chiederete niente”. Che cosa è “quel giorno”? Quel giorno in Giovanni è chiaramente il giorno escatologico. Lo possiamo intendere se ricordiamo un altro passo in cui appare l’espressione “in quel giorno”: “In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me, come io in voi” (14, 20).
Che cosa avverrà in quel giorno? Vi sarà una tale identificazione tra noi e il Cristo, come tra il Cristo e il Padre, che non si chiederà più a lui in preghiera; oppure, se si chiederà, saremo noi stessi nel Cristo che la presenteremo al Padre, e la preghiera sarà per ciò stesso esaudita. Quindi, la preghiera nostra sulla terra appartiene al mistero escatologico, in quanto anticipa lo stato di esaudimento filiale, nel quale la nostra preghiera è la stessa del Cristo ed è quella che il Padre ci ispira, perché siamo col Cristo uniti al Padre; cosicché la nostra preghiera è lo stesso desiderio, lo stesso respiro – per così dire – di Dio. La nostra preghiera è l’anticipazione escatologica, l’anticipazione nel momento presente di quello stato di esaudimento filiale, che è tipico della situazione escatologica.
Possiamo intendere allora anche l’ultimo passo di Giovanni sulla preghiera, in cui ci parla della preghiera come mistero di trasformazione, ovvero mistero di identificazione: “Se rimanete in me e le mie parole in voi rimangono, ciò che volete chiedetelo e vi avverrà” (15, 7).
Che cosa succede nella preghiera? Avviene quella identificazione nostra fin da ora con Gesù, che ci fa riprodurre lo stato di unità del Figlio col Padre, e quindi rende immediatamente esaudita ogni preghiera, perché la preghiera stessa sgorga da noi come ispirata da Dio, così da essere il respiro stesso di Dio che ci trasforma. Certamente questo insegnamento sulla preghiera costituisce un passo avanti rispetto all’insegnamento sinottico: “Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto, chiedete e otterrete”; ma è certamente nella linea sinottica, in quanto ci presenta la preghiera come momento di identificazione con la volontà del Padre e del Figlio, attraverso l’adesione della volontà alle parole di Gesù. In altri termini, chi prega riproduce in sé l’atteggiamento di Gesù, il quale dice in Gv. 8,29: “Faccio sempre le cose che sono gradite al Padre”; e in 11, 41-42: “Ti ringrazio, Padre, perché sempre mi ascolti”. Come Gesù ascolta il Padre, così il Padre lo ascolta.
Pregare è dunque essere nel Figlio e partecipare alla fiducia filiale di chi ascolta il Padre e ne è ascoltata. La preghiera così è fonte di gioia, perché è segno di identificazione, è frutto di unità col Figlio e col Padre. E si manifesta allora, nella preghiera, quella fiducia di cui ci parla l’odierno testo evangelico, quella parresia che viene spiegata ancora molto più chiaramente nella prima lettera di Giovanni in 5,14 ss.: “Questa è la parresia (la fiducia) che abbiamo verso di lui: che se qualcosa chiediamo secondo la sua volontà, ci ascolta. E se sappiamo che ascolta ciò che chiediamo, sappiamo che le richieste che gli abbiamo rivolto sono già nostre”. La nostra richiesta intanto è in noi, in quanto Dio già ce la dà. E questo spiega più chiaramente una misteriosa parola di Marco, in 11, 24, che dice: “Per questo vi dico: tutto ciò che pregate e chiedete, credete di averlo già ottenuto, e vi sarà dato”. “Chiedere”, in questa visione, è già ottenere, è già ricevere, perché è respirare il dinamismo della volontà di Dio. Questo testo di Marco è così oscuro, che molti – come si nota nei manoscritti – l’hanno cambiato: non “credete di averlo già ottenuto”, ma “credete che lo otterrete”, o “che state per ottenerlo”. Ma così il senso è sovvertito, mentre il vero senso rimane: “Credete di averlo già ottenuto”.
Possiamo concludere: questo insegnamento sulla preghiera è troppo alto, troppo sublime? Credo di no, se solo riflettiamo un momento sulla nostra esperienza, sui nostri desideri, sulle nostre preghiere, e ci rendiamo conto che, in fondo, nulla veramente chiediamo e desideriamo, quando preghiamo rettamente, se non ci è ispirato dal Padre e se lo Spirito non lo muove in noi. E se Dio lo muove in noi è perché ce lo vuol dare. E se lo vuol dare, di fatto ce lo ha già datò: ci deve aver già dato la salvezza, per averla voluta. La preghiera quindi non avviene più in una situazione di angoscia, quasi si trattasse di strappare qualcosa a Dio, bensì consiste nell’abbandonarsi con fiducia a lui, nella certezza che egli, poiché ci fa pregare, ci salva senz’altro.