da “Lo straniero nella Bibbia – saggio sull’ospitalità” di Carmine Di Sante
In un midrash così viene tratteggiata la figura di Abramo: “La casa di Abramo era aperta ad ogni creatura umana, alla gente di passaggio e ai rimpatrianti, e ogni giorno arrivava qualcuno per mangiare e bere alla sua tavola. A chi aveva fame egli dava del pane, e l’ospite mangiava e beveva e si saziava. Chi arrivava nudo in casa sua era da lui rivestito e da lui imparava a conoscere Dio, il creatore di tutte le cose.”
In questo splendido ritratto Abramo è presentato come l’ospitale per eccellenza che, accogliendo tutti nella sua tenda, insegnava a tutti a conoscere Dio: a fare esperienza dell’ospitalità divina che, offrendosi, si offre come ospitalità da imitare.
La figura di Abramo come figura ospitale ha un’origine biblica sulla quale il midrash si fonda, presupponendola e reinterpretandola: il capitolo 18 della Genesi dove si narra di una visita di personaggi misteriosi al patriarca:
Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra dicendo: «Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti dal tuo servo». E subito ordina: «Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli acconsentendo, allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce». E mentre Sara obbediva ai suoi ordini all’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.
In questo testo si condensa un intero trattato sull’ospitalità che, con la potenza del linguaggio narrativo, come su una mirabile tavolozza, disegna i tratti fondamentali dell’umano ospitale.
Prima di tutto alcune annotazioni sulla contestualizzazione e composizione strutturale di questo capitolo eccezionale che si presenta nelle bibbie con vari titoli (si ricorderà che la bibbia, nel testo originale, non ha né titoli né capitoli e che le divisioni e le titolazioni sono dei traduttori e degli editori): comunemente L’apparizione di Mamre (o a Mamre), La rivelazione di Mamre oppure Seconda promessa per la nascita di Isacco (per il seguito del racconto dove a Sara viene annunciato che avrà un figlio nonostante l’età avanzata). Titoli come questi, pur cogliendo aspetti importanti del testo, ne occultano però il significato più profondo che si riferisce all’agire ospitale di Abramo.
A parte i titoli, il capitolo 18 della Genesi narra la storia di Abramo che, dopo la circoncisione fatta a tarda età e riferita nel capitolo precedente, riceve nella sua tenda la visita imprevista di un personaggio misterioso che a volte viene scambiato dal patriarca per il Signore stesso e altre volte per tre stranieri anonimi, chiamati semplicemente uomini, che la tradizione ha interpretato spesso come angeli e la tradizione cristiana addirittura come prefigurazione della Trinità stessa. Questo tratto di indefinibilità, che ne costituisce l’incatturabilità, è espresso anche grammaticalmente con il passaggio dal singolare al plurale, come ad esempio nel versetto 2 dove, nel personaggio che gli appare, Abramo prima riconosce la presenza di tre uomini («Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra»), subito dopo invece Dio stesso: «Ma io Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti dal tuo servo».
Se dal punto di vista del contenuto il capitolo costituisce una sola unità tematica, quanto alla sua struttura letteraria esso può dividersi in due parti: da un lato (vv. 1-15) l’agire di Abramo nei confronti dello straniero o straordinario personaggio, dall’altro l ‘agire dello straniero nei confronti di Abramo e di sua moglie Sara (vv. 9-33).
Nei confronti dello straniero (Dio, uomo o angelo, il misterioso personaggio è comunque lo Straniero per eccellenza, metafora dell’alterità irriducibile e inassimilabile) l’agire di Abramo è presentato con una pluralità di verbi che sono i verbi costitutivi dell’accoglienza: «Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra dicendo: Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti dal tuo servo». Abramo vede, va incontro, si prostra e supplica: è il primo movimento del soggetto ospitale che, alla preoccupazione per il proprio sé, sostituisce la cura per l’altro.
Al movimento dell’attenzione segue quello dell’accoglienza con cui Abramo fa entrare lo straniero nella sua tenda per offrirgli da bere e da mangiare:
Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce». E mentre Sara obbediva ai suoi ordini all’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.
Nella seconda parte, la più sviluppata (vv. 9-33), al centro della narrazione non c’è più l ‘agire di Abramo ma l ‘agire dello straniero il quale chiede a bruciapelo ad Abramo:
«Dov’è Sara tua moglie?» Rispose: «È là nella tenda». Il Signore riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Intanto Sara stava ad ascoltare all’ingresso della tenda ed era dietro di lui. Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e disse: «Avvizzita come sono dovrei provare il piacere, mentre il mio Signore è vecchio!» Ma il Signore disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio». Allora Sara negò: «Non ho riso!», perché aveva paura; ma quegli disse: «Sì, hai proprio riso» (vv. 9-15).
Al dono della fecondità fatto a Sara dallo straniero, segue il miracolo della intimità con Dio donata dallo straniero ad Abramo il quale mentre lo accompagna per congedarlo si sente confidare: «Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare?» Il racconto prosegue (vv. 18-33) con la toccante intercessione di Abramo nei confronti della città di Sodoma e di Gomorra di cui il patriarca si prende cura e che per salvare sfida Dio stesso, in forza dell’intimità appena conquistata. Paradossale intimità con il divino dove l’essere intimo di Dio è salvare gli uomini! Per questo accogliere e servire l’ospite per il Talmud è più importante che accogliere e servire Dio: come vuole la lettura midrashica dei versetti 1 e 2 secondo cui Abramo, avendo ricevuto contemporaneamente due visite, quella di Dio («Il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre», v.1), e quella degli stranieri («Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui», v.2), preferì quest’ultima alla prima.
I tratti dell’io ospitale
Nei confronti dello straniero Abramo compie una serie di azioni che sono come la messa in scena narrativa dei tratti distintivi e costitutivi del soggetto ospitale e della sua coscienza come nuova coscienza e identità: la coscienza non più conoscitiva, fondata sull’interiorità e sul sapere, bensì la coscienza etica che è accoglienza del volto e responsabilità per l’altro; e l’identità non più come identità dell’io che, come un blocco monolitico, si costituisce e ricostituisce assimilando e inglobando l’altro, bensì l’identità come crisi e messa in discussione dell’io da parte dell’altro inassimilabile nella sua alterità.
Il primo tratto dell’io ospitale è di tenere la porta della propria casa aperta. Un interessante testo rabbinico si chiede come mai, nell’ora più calda del giorno, Abramo sedesse all’ingresso della tenda e non si trovasse, piuttosto, al suo interno per ripararsi dal caldo. E la risposta è: per stare allerta e vigilare perché, scorgendo qualcuno da lontano, potesse subito invitarlo nella sua tenda, offrendogli riparo al più presto. Stupenda metafora della soggettività ospitale che veglia e che, vegliando, si risveglia dal torpore dell’io che riposa su di sé e vigila sull’altro. Un altro testo rabbinico si interroga sul numero delle entrate o porte della tenda di Abramo e risponde che queste erano quattro, corrispondenti ai quattro punti cardinali perché i passanti potessero entrarvi subito e facilmente da qualsiasi parte provenissero. Ospitale è il soggetto la cui casa non è più il luogo dove egli abita nel chiuso del rapporto da sé e sé (non senza significato i francesi chiamano la casa chez sai) ma lo spazio che, aperto dall’altro, si apre all’altro e nelle cui porte le chiavi non sono più strumenti che chiudono, come vuole l’etimo del termine italiano che rimanda a claudere e che riproduce il movimento della mano che si stringe e si rinserra, ma strumenti che aprono, come vuole l ‘etimo del termine ebraico, patah, che vuol dire disserrare e perciò aprire. La risposta al problema immane delle popolazioni di poveri, perseguitati e affamati che dal terzo e quarto mondo invadono e sempre più invaderanno le nazioni e le metropoli del nostro primo mondo, prima che nell’elaborazione di leggi ferme e giuridicamente efficaci, va individuata nella istituzione di soggetti etici nelle cui case non ci siano «chiavi che chiudono» bensì «porte che aprono».
Il secondo tratto dell’io ospitale è di dare il benvenuto: «Appena (Abramo) li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra dicendo: Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti dal tuo servo». Ospitale è l’io che non teme l’altro come intruso da cui proteggersi (poco importa se con le armi. della diffidenza, del pregiudizio, del razzismo, della forza o della violenza) ma gli dà il benvenuto, riconoscendolo come colui che, per l’io, è il ben-venuto, perché venendo all’io ed entrando nella sua casa gli porta bene, introducendolo nel bene ed elevandolo al bene come bontà e disinteressamento. Per questo l’ospite è sacro: perché proviene da un mondo altro dal mondo umano e, introducendosi nel mondo umano, vi introduce la dimensione della bontà che lo rifonda. È per questa ragione che Abramo si rivolge allo straniero che gli fa visita prostrandosi ai suoi piedi, chiamandolo «mio Signore» e supplicandolo di fermarsi. Come vuole Lévinas, nel volto dello straniero accolto e ospitato risplende il volto del Maestro che, insegnando all’io la bontà, gli dischiude l’unico sapere della vita che veramente conta: il sapere della bontà inteso come sapere che il vero sapere è la bontà. La risposta al dramma e alla conflittualità delle relazioni umane («Gli altri sono il nostro inferno» ha voluto e insegnato Jean-Paul Sartre) più che in equilibri nuovi da istituire e in confini da ridefinire, è da ricercare prima ancora nella coscienza della asimmetria – la coscienza della bontà e del disinteressamento – come coscienza più nobile e più alta della coscienza della reciprocità e dello scambio.
Il terzo tratto dell’io ospitale è di accorgersi di ciò di cui l’altro soffre ed ha bisogno: «E subito (Abramo) ordina: “Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero”». Accorgersi del bisogno dell’altro è portarsi con il proprio cuore là dove l’altro è bisogno e soffre rispondendo al suo bisogno e colmandolo. In una delle sue storie chassidiche M. Buber racconta di un discepolo che spesso amava dire al suo maestro quanto lo amasse. Un giorno il maestro a bruciapelo gli chiese: «Sai tu cosa mi fa male?» E alla risposta del discepolo sorpreso di non saperlo, il maestro commentò amaro: «Come puoi dire di amarmi se non sai ciò che mi fa soffrire e non fai nulla per eliminarlo?» L’andare all’altro nella sua sofferenza e soccorrerlo non solo è trascendimento e inveramento del principio tolleranza, di cui oggi, insieme alla necessità, si coglie anche l’insufficienza, ma è messa in crisi e sconfitta soprattutto della indifferenza per la quale è irrilevante che l’economia di mercato, assunta idolatricamente come un dogma, produca masse sterminate di disoccupati, lasciando ai margini e stritolando i perdenti e gli sconfitti nella lotta per la sopravvivenza. Interrogandosi sul perché Dio abbia abbattuto la torre di Babele, un midrash racconta:
Gli uomini dissero: costruiamo una città e una torre la cui cima arrivi al cielo. Ora la torre aveva sette gradinate ad oriente e sette ad occidente. Gli uomini salivano da una parte per porta re i mattoni, mentre scendevano dall’altra per andare a caricare. Se cadeva un mattone si sedevano e piangevano dicendo: Ah, si è rotto un mattone! Che cosa facciamo, qual è il suo prezzo? Dobbiamo farne un altro! Passò allora di là il Signore e vide che gli uomini che cadevano dalle impalcature non erano pianti ma il mattone cotto trovava grande pianto. Allora li maledisse e li disperse su tutta la terra (Gn Rabba: 11,1,9).
Il vero male dell’umano è l’indifferenza, la percezione della non differenza tra l’umano e il non umano. Per questo essa va male-detta, riconosciuta e bandita come tale perché là dove le si riconosce il diritto di cittadinanza, semina distruzione e morte.
Il quarto tratto dell’io ospitale è di fare spazio all’altro, limitando il proprio. Agli stranieri che incontra, Abramo offre infatti la sua tenda e li fa sedere sotto il suo albero, mentre li serve, coinvolgendo, nel suo servizio, la stessa Sara: «Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”». Ospitale è l’io che, interrompendo il movimento da sé a sé, lo converte e lo inverte orientandolo da sé all’altro. Senza questa conversione ed inversione, come quella della macchina che gira su stessa per prendere la direzione opposta, non è possibile l’ospitalità e lo straniero – l’altro nella sua alterità irriducibile e inassimilabile – non trova spazio nella propria tenda, perché nella «tenda», metafora della soggettività dell’io, c’è spazio solo per i simili, quelli nel cui volto, come Narciso nelle acque, l’io si riflette e prolunga la sua immagine. Lo straniero, l’altro nella sua alterità irriducibile all’io, trova spazio nella «tenda» dell’io solo se l’io esce, come Abramo, dalla sua «tenda» e, non più occupato e preoccupato del suo io, si occupa e preoccupa dell’altro. È questa la ragione per la quale nella bibbia la parola di Dio si dà come ordine, precetto e comandamento: perché, con l’altezza della sua trascendenza, interrompe la spontaneità del movimento dell’io da sé a sé e lo eleva all’altezza della responsabilità, dischiudendogli lo spazio dell’accoglienza o ospitalità. Commentando l’affermazione di rabbi Shimon per il quale, contrariamente all’opinione corrente, anche all’osservanza dei comandamenti negativi segue sempre una ricompensa, Lévinas scrive:
Certo è possibile aspettarsi da questa promessa quel che se ne aspetta la fede del carbonaio: longevità, vita eterna o felicità terrena […]. Ma si può anche intendere per ricompensa di una vita che accetta dei limiti, questa vita stessa: la limitazione della selvaggia vitalità della vita, mediante la quale questa vita si risveglia dalla sua spontaneità di sonnambula, si sbarazza della sua natura e interrompe i suoi movimenti centripeti, per aprirsi all’altro da sé. Vita nella quale il giudaismo si riconosce, che limita con la Legge questa vitalità da belva, che accetta questa restrizione come la parte migliore di essa, e cioè come una ‘ricompensa’. Alla vita ebbra della sua propria essenza, all’invasione dell’appetito indomito del desiderio, al quale non si oppone nulla, nemmeno l’altro, è preferita la pienezza di senso della responsabilità e della giustizia.
La risposta alla crisi del soggetto moderno o postmoderno e alla sua ricerca spasmodica della felicità sospesa tra l’ossessione e l’illusione più che nel potenziamento del desiderio e della spontaneità è da cercare nella loro limitazione e messa in discussione attraverso la quale elevarsi alla responsabilità dell’io ospitale.
L’ultimo tratto infine dell’io ospitale è di donare ciò che si ha, togliendosi il pane dalla propria bocca e condividendolo: «Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”. All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono». Ospitale è l’io che, disponendo di «pane» e «Vino», simboli dei beni necessari all’esistenza umana, se ne spossessa, sottraendoli alla propria bocca per donarli allo straniero che ne è privo.
È qui, nello spossessamento come donazione, il senso ultimo e più profondo dell’ospitalità dell’io o dell’io ospitale: un io che, non più curvato su di sé e incatenato a sé, va verso l’altro a mani piene, instaurando con lui una relazione che coinvolge il mondo e che per questo, come vuole Lévinas, coincide «con una certa forma di vita economica»:
La «visione» del volto come volto è un certo modo di soggiornare in una casa o, per esprimersi in un modo meno singolare, una certa forma di vita economica. Nessuna relazione umana o interumana potrebbe esistere al di fuori dell’economia, nessun volto potrebbe essere incontrato a mani vuote e a porte chiuse: il raccoglimento in una casa aperta ad Altri – l’ospitalità – è il fatto concreto e iniziale del raccoglimento umano e della sua separazione, coincide con il Desiderio d’Altri assolutamente trascendente. La casa scelta è tutto il contrario di una radice. Essa indica un disimpegno, un’erranza che l’ha resa possibile, che non è un di meno rispetto all’installazione, ma un sovrappiù della relazione con Altri o della metafisica.
Il problema della fame nel mondo non può essere risolto solo con la tekne se alla tekne non si associa la nascita di soggettività ospitali abitate dalla convinzione che ciò che si ha lo si ha per donare e che la relazione umana, più che spirituale, è sempre, propriamente e necessariamente, relazione economica e materiale:
Ci si può chiedere se vestire gli ignudi e dar da mangiare agli affamati non ci avvicini al prossimo più di quanto non riesca a fare l’etere in cui ha luogo talora l’incontro di Buber. Il fatto di dire «TU» attraversa già sempre il mio corpo fino alle mani che donano, al di là degli organi di fonazione. E questo sta all’interno di una buona tradizione biraniana ed è conforme alle verità bibliche. Incontro al volto di Dio non bisogna andare a ma ni vuote. Ed è anche conforme ai testi talmudici che proclamano che «dar da mangiare» è una cosa grandissima e che l’amare Dio con tutto il cuore e con tutta la vita è superato ancora dall’amarLo con tutto il proprio denaro. Ah! Il materialismo ebraico.