da “Abramo nostro padre nella fede” di Carlo Maria Martini
Cercando tra gli aspetti della vita pubblica di Abramo qualcuno che corrisponda ad aspetti della vita pubblica di Gesù, non ho trovato molto. È vero che Abramo più di una volta è chiamato profeta; così nel salmo 105,15: “Non toccate i miei consacrati, non fate alcun male ai miei profeti” alludendo anche ad Abramo; e poi nell’episodio di Abimelech, re di Gerar, Gn 20,7, a cui Dio dice: “Restituisci la donna (Sara) di quest’uomo, egli è un profeta; preghi egli per te e tu vivrai” – qui Abramo è presentato come profeta e la sua funzione di profeta è la preghiera.
Di fatto però, se cerchiamo altre indicazioni di profetismo nella vita di Abramo, come le troviamo nella vita di Gesù, “profeta grande in opere e parole”, noi troviamo che Abramo non è grande né in opere né in parole. Non è grande in opere: nessun miracolo. Non è grande in parole, perché non parla quasi mai; nessuna predica di Abramo ci è stata tramandata; non ha dato delle risposte nelle controversie come Gesù, parole sapienziali, appuntite, pronte.
Abramo, uomo di poche parole
Abramo sta quasi sempre zitto; parla due o tre volte. Parla, come abbiamo visto, quando deve fare il furbo; per esempio in Go 12,11-13, quando deve convincere la moglie di dire che è sua sorella; anzi allora ha un discorso abbastanza ampio, è uno dei discorsi più lunghi di Abramo; poi anche nel citato analogo episodio di Abimelech. Parla molto poco, eccetto appunto quando gli conviene. Parla perciò molto con Sara, molto nell’acquisto della grotta di Macpela, dimostrandosi un ottimo commerciante; parla anche quando vuol fare il generoso, per esempio quando vuol salvare Lot, quando rifiuta l’offerta del re Sodoma e quando incontra Melchisedek.
Le parole tramandate di Abramo sono ben poche; quindi non si può dire che sia stato un profeta in parole, che abbia lasciato insegnamenti particolari, discorsi simili a quelli delle parabole del Vangelo, al discorso della montagna; niente! Abramo è un grande silenzioso, che passa per queste tappe, almeno apparentemente secondo il testo, meditando in silenzio. Tuttavia c’è un’affinità precisa tra la vita di Abramo e la vita di Gesù, ed è la preghiera. Gesù prega. Abramo prega. Quindi ho. preso questo aspetto che ci permette di contemplare qualche scena di Abramo nello sfondo della scena di via illuminativa di Gesù.
Preghiera di Gesù, preghiera di Abramo
Non è necessario ricordare molti testi sulla preghiera di Gesù. Ne ricordo due caratteristici.
Uno in Mc 1,35: dopo la faticosa giornata di Cafarnao, che veramente doveva averlo sfinito, mentre tutti ancora dormivano: “Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e la pregava”. Ecco un fatto tipico della vita pubblica di Gesù: preghiera di notte da solo.
Un altro brano molto significativo in Le 5, 15-16. Luca, come sapete, riporta molti altri brani sulla preghiera di Gesù, ma cito solo questo perché ci serva come punto di riferimento. C’è un contrasto tra il versetto 15: “la sua fama si diffondeva ancor più, folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire delle loro infermità”, e il seguente: “Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare”. C’è quindi un contrasto tra questa possibilità di successo apostolico esteriore che si offre a Gesù e Gesù che si ritira. La preghiera è certo una caratteristica importante della missione di Gesù, profeta e Messia, che possiamo tenere presente; anzi, chi volesse, potrebbe meditare su questi testi e su qualche altro che darò sulla preghiera nella vita di Gesù, fino al Getsemani. Io piuttosto cercherò di riflettere con voi sulla preghiera di Abramo e sui suoi diversi stati di preghiera.
Dico subito, come premessa, che gli stati di preghiera di Abramo, soprattutto il secondo e il terzo, sono a mio avviso molto difficili da capire. Io stesso vi ho fatto molta fatica, e direi che mi ha aiutato molto il commento di von Rad, che citerò qualche volta. E la ragione è questa: non sono stati di preghiera da principianti, non sono preghiere facili; le preghiere di Abramo sono preghiere di una situazione in cui la conoscenza di Dio è molto raffinata, profonda, quasi pericolosa; cioè gli stati di preghiera di Abramo, soprattutto il secondo e il terzo, sono quelli di un uomo maturo, coinvolto e responsabile, socialmente impegnato, che porta il peso di Itri e che sente su di sé il destino di un popolo. E la preghiera di un capo, di un responsabile, di un presbitero; la preghiera di un uomo che ha responsabilità, e quindi, per questo, ha un ardimento, un’audacia, talora una sfrontatezza, che sarebbe strana nella preghiera del principiante. È anche una preghiera, quella di Abramo, che suppone crisi di fede e maturazione di fede e notti della fede; quindi una preghiera che non è modello di preghiera d’inizio.
1. La preghiera di ascolto
Con queste premesse vengo dunque a esaminare tre stati tipici di preghiera di Abramo.
Sul primo non mi fermo perché è troppo evidente, anche se lo si può qualificare come preghiera in senso largo. Come abbiamo detto, Abramo non parla quasi mai, anche nella preghiera le sue parole sono per lo più poche, eccetto un caso che vedremo. Cioè Abramo ascolta. Quindi la prima grande attività di Abramo orante è l’ascolto. Dio parla, ripete, e lui ascolta e va, ascolta e si muove, ascolta e cammina. Questa è, penso, la situazione tipica, fondamentale che spiega anche le altre. Se Abramo può essere così ardito, quasi sfacciato, petulante, addirittura apparentemente mercantile nelle sue preghiere, è perché prima di tutto è un reverentissimo ascoltatore della parola; cioè un uomo che ha buttato la sua vita sulla parola e vive di essa. Ascolta la parola di Dio e la mette in pratica; è l’ideale evangelico di chi fonda rapporti di familiarità con Gesù; i veri figli di Abramo sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica. Su questo non mi fermo, perché è tutta la vita di Abramo.
2. Preghiera di lamentazione
Mi fermo su altri due tipi di preghiera, più specifici, che troviamo in alcuni passi particolari. Il secondo stato di preghiera è quello che chiamo, tra virgolette, di “lamentazione”. Lo chiamo così perché ha molte affinità coi salmi detti di lamentazione, che prendono questo tema e lo sviluppano a lungo. Questa preghiera di lamentazione la chiamerei anche preghiera di interrogazione, perché è basata spesso su una domanda: perché, Signore, perché fai questo? perché non vieni in mio soccorso? perché mi abbandoni? Come mai?
Due domande tipiche: perché? come? La prima si trova in Gn 15,2: “Non temere, Abram, io sono il tuo scudo, la tua ricompensa sarà molto grande. Rispose Abram: Mio Signore, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco”. Cioè: cosa dici, Signore, spiegami, perché mi parli così, se la mia vita continua ad andare in questo modo?
Appare ancora meglio al versetto 8 nella domanda: Signore, mio Dio – tu continui a parlarmi di questa terra – “ma come potrò sapere che ne avrò il possesso?” Notiamo che la sua preghiera è quella di uno che ha accolto la parola di Dio; non è la parola dell’incredulo, che dice: come può avvenire questo? È il “come può avvenire” nella linea di Maria, e non in quella di Zaccaria. La stessa domanda può essere fatta da diversi punti di vista e avere diverse risonanze. Tuttavia è certamente una domanda, una doglianza che nasce dall’interno e quindi dolorosa.
Abbiamo poi nel cap. 17, 16ss una domanda dolorosa e un po’ amara, quando Dio dice ad Abramo: “Da lei (Sara) ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni, re di popoli nasceranno da lei. Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: Ad uno di cento anni può nascere un figlio, e Sara all’età di novanta anni potrà partorire? Abramo disse a Dio: Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!” Ecco la preghiera di lamentazione, di querela: Signore, non andare così in là, mi accontento di meno; tu prometti mari e monti, piuttosto lasciami così, dammi un po’ di salute, un po’ di forze, di questo ho bisogno adesso, aiutami in questa situazione.
Ecco la preghiera di lamentazione, la preghiera dell’uomo nella prova, e Abramo è l’uomo nella prova, che lotta con Dio, l’uomo che non capisce che cosa succede né a sé né agli altri. Questa preghiera possiamo farla tante volte anche noi: Signore, perché quella situazione va così, perché ci sforziamo apostolicamente di costruire qualcosa e sembra che tutto vada a catafascio? E la grande domanda che i salmi allargano alla storia di Israele: perché i malvagi trionfano, perché i buoni sono oppressi? Questa preghiera di lamentazione può essere fraintesa come preghiera di principiante, può essere la preghiera della poca fede. In Abramo invece è, a mio avviso, la preghiera di chi sente il bisogno, l’impulso, di penetrare meglio il piano di Dio. E il “come avverrà questo?” di Maria, che in Maria ha un livello altissimo di affinità con Dio, ma in Abramo ha già un livello di amicizia.
È provocata dallo scarto tra la promessa e i fatti
Potremmo citare molti salmi di “perché”, io ne cito due come possibile oggetto di riflessione, i salmi 42 e 43: Perché triste me ne vado lontano da te, respinto dal nemico; perché non posso stare nei tuoi atri, dove stavo così bene a cantare le tue lodi; adesso sono qua, così arido, così depresso, lontano dalla città.
Se noi ci chiediamo qual è l’oggetto fondamentale, la categoria ultima nella quale si riassumono tutte queste domande dei salmi di lamentazione, e in particolare le domande di Abramo, la domanda dell’uomo che vive nell’ambiguità della storia del mondo e che si interroga nella preghiera: ma perché questo? – direi così: l’oggetto che fa scattare queste domande è lo scarto, almeno apparente, tra la promessa e ciò che si vede. Se non ci fosse questa grande promessa, saremmo fatalisti: le cose devono andare così, accettiamole; diremmo: Dio si rivela in tutto, si rivelerà anche nella nullità della mia vita! Ma c’è una promessa e la promessa è gioia, è pienezza, è popolo di Dio, fraterna comunione degli uomini. E allora perché non si realizza?
Quindi lo scarto doloroso e dolorosamente sentito dall’uomo di fede che è Abramo, lo scarto fra la promessa altissima, ripetuta, scandita, ribadita, e la realtà. Ecco l’origine della preghiera di lamentazione, che, se fatta in stile di amicizia, è un tentativo – come dicono i salmi: “donec intravi in sancta Dei” (Sai 73,17) – di entrare nel santuario di Dio e di capirlo meglio: Mio Dio, chi sei? siccome la tua promessa è vera e non posso dubitarne, siccome la realtà è meschina e ne ho l’evidenza, allora vuol dire che il rapporto tra queste due cose lo troverò in una nuova conoscenza di te; vuol dire che io non ti ho capito, che ti devo capire di più, e prego per capirti di più, e ti offro la mia sofferenza di non capirti abbastanza. Perché se tu fossi a mio modo, avresti già realizzato la promessa, avresti già fatto quello che ti chiedo per quella persona, per quella situazione, per il mondo, per la giustizia… Invece non lo fai, mentre prometti di farlo; vuol dire che non ti ho capito ancora. E allora, fammiti capire di più.
Preghiera che potrebbe sembrare una bestemmia
È la preghiera dolorosa, sofferta, di chi da una familiarità di fede vuol giungere a una familiarità più profonda. È una preghiera che, pur essendo nelle parole quasi blasfema, perché questiona con Dio – e certi salmi veramente raggiungono una violenza che sembra bestemmia – pure nella prospettiva abramitica noi vediamo che Abramo, l’amico di Dio, vive queste cose da amicizia in amicizia, da familiarità in familiarità. Non è quindi una preghiera da principiante, che la fa quasi come nutrimento della sua poca fede, come lamento, diciamo da querulo: mi aspettavo questo, sono entrato nella vita spirituale, pensavo che i miei difetti scomparissero, mentre sono quello di prima, perché? come mai?
La fede rassodata dalla potenza della parola non esclude questo lamento, anzi il salterio ne è pieno, ma è uno sforzo amoroso, anche se sofferto, di conoscere sempre di più chi sei tu, o mio Dio, che ti riveli così. Perché io non ti capisco? perché non ti fai capire? E questo può dirlo solo un amico; se lo dicesse un estraneo sembrerebbe una bestemmia, un insulto parlare così a Dio. Ma un amico come Abramo, come il salmista, osa molto di più, e osa non soltanto in punta di piedi, ma osa con tutto se stesso.
I salmi sono pieni di furore, pieni di emozioni; quindi una preghiera emozionata, una preghiera violenta. Ma se Dio ha ispirato questa preghiera, vuol dire che Dio ama l’emozione, la violenza nell’amicizia. Dio non è un amico freddo, è un Dio che ama questa contestazione che cerca di capirla più a fondo; ci preferisce, per così dire, contestatori violenti piuttosto che rassegnati, indifferenti. Questo mi sembra di capire esaminando lo stato di preghiera di Abramo che chiamo di lamentazione.
3. La preghiera di intercessione
Vengo alla terza caratteristica, al terzo stato, quello che chiamo, tra virgolette, “preghiera di intercessione”. Sotto questa etichetta intendo porre la famosa contrattazione su Sodoma, del cap. 18: il lungo dialogo di Dio con Abramo rimasto sotto le querce di Mamre a debita distanza da Sodoma. Pagina difficile, che ho fatto fatica per penetrare. Mi ha aiutato molto, come ho detto, il commento di von Rad, di cui leggerò qualche cosa. Anche io credo, come dice von Rad, che è troppo poco chiama rla preghiera di intercessione, quasi che, di fronte a Sodoma, che sta per essere distrutta, Abramo intercede però senza riuscirvi: Abramo sarebbe un grande intercessore, anche se in. questo caso gli è mancata la materia sufficiente per poter intercedere.
Questa preghiera, nel contesto Jahvista, è un’aggiunta posteriore, una riflessione teologica sulla vicenda. Notano gli autori che qui il redattore è molto più libero, non è legato a delle tradizioni, non dà semplicemente il racconto di una tradizione passata, ma teologizza; è la sua teologia, elabora un certo concetto di Dio, è lo sforzo per un nuovo concetto di Dio, per conoscerlo meglio, per passa re da una cognizione del Dio di Ur dei Caldei alla cognizione del Dio della salvezza.
Quindi è una preghiera che si dovrebbe piuttosto chiamare, e la chiamerei, preghiera di penetrazione teologica. In fondo dice bene qui van Rad: E una pagina teologica detta in forma drammatica di preghiera, quasi di poema; preghiera di penetrazione teologica del mistero della vicenda umana così come Dio lo giudica; quindi una preghiera sul mondo, sulla società, sulle situazioni che ci circondano. È preghiera anche di coinvolgimento, perché, in Sodoma c’è Lot, quindi Abramo è fortemente coinvolto con Sodoma; non è soltanto un filosofo che specula su una città corrotta e dice: che le succederà, come Dio la guarderà? C’è anche questo, ma c’è pure un coinvolgimento terribile:
Abramo prega per i suoi fratelli.
Vediamo brevemente questo episodio, leggendolo con una “brevis et sommaria declaratio”, come dice sant’Ignazio, e qualche spunto di riflessione.
L’episodio di Lot e i suoi a Sodoma
Il testo è Gn 1816-33. Dopo l’apparizione dei “tre uomini” al querceto di Mamre, dopo la rinnovata promessa a Sara e il riso di Sara, il testo descrive. prima di tutto la situazione, versetti 16- 20; poi narra in maniera drammatica il duplice intervento di Abramo.
Qual è la situazione? Dopo che hanno detto a Sara: sì, hai proprio riso, contestandole la sua colpa, la sua incapacità a credere – diciamo il suo “qoeletismo” -“quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sodoma dall’alto, mentre Abramo li accompagnava per congedarli. Il Signore diceva: Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti io l’ho scelto perché egli obblighi i suoi figli, e la sua famiglia dopo di lui, ad osservare la via del Signore, ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso”. Qui la composizione redazionale usa brani già tipici e li mette insieme per ricordare il rapporto privilegiato di Dio con Abramo; probabilmente siamo già in uno stadio posteriore di linguaggio piuttosto deuteronomista: “Io l’ho scelto”, cioè Abramo è l’amico, lo sposo, colui che ho amato fino in fondo. Dunque la situazione h a un primo momento: c’è Dio e di fronte a Dio Abramo, amico e progenitore di un grande popolo, nella pienezza della sua funzione; l’amico intimo a cui non si nasconde nulla – ricordate Gv 15,15: “Vi ho chiamati amici perché vi ho detto tutte le cose che mi ha detto il Padre” – quindi il confidente, partecipe dei disegni di Dio sulla storia. Per essere veramente capo di un popolo Abramo deve entrare nel disegno di Dio, non può viverlo dall’esterno, in maniera puramente da spettatore, deve esserne intimamente partecipe, deve capire il disegno di Dio.
Poi un secondo momento: “Disse allora il Signore: Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande, il peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me, lo voglio sapere”. Questo secondo momento è la gravità del peccato delle due città, è la tipica situazione di chi è oppresso ingiustamente, di chi sta sotto l’oppressione, sotto l’ingiustizia, e si rivolge al giudice; e se il giudice non gli fa giustizia, allora il suo _grido arriva fino a Dio e Dio deve intervenire. E una situazione chiaramente cosmica: Dio, colui che Dio ha eletto per il suo popolo e il mondo con il suo peccato, con la sua ingiustizia. Dio giudicherà il mondo: quale funzione avrà Abramo, l’amico, in questo giudizio del mondo?
L’argomento ‘giuridico’ di Abramo
Questa la situazione, poi viene il duplice intervento di Abramo – lo chiamo duplice, ma in realtà è molto più complesso – che inizia con un tema fondamentale, che direi giuridico, e che costituisce il nucleo, la forza dell’argomentazione di Abramo. Questo tema è espresso nei versetti 23-25; poi c’è la contrattazione sulla base di questo tema, versetti 26-33. Ma prima c’è una premessa molto interessante: “Questi uomini partirono di lì e andarono verso Sodoma, mentre Abramo stava ancora davanti al Signore” (v. 22).
Qui c’è un problema di critica testuale importante.
Intanto già la scena si chiarifica dal punto di vista anche teologico: i tre uomini diventano due angeli e l’unico che rimane è Jahvé e davanti a lui Abramo. Il testo attuale della Bibbia dice: “Mentre Abramo stava ancora davanti al Signore”, ma una nota masoretica segnala che qui è avvenuto un cambio. L’antica tradizione leggeva con tutta probabilità: “Mentre Jahvé stava ancora davanti ad Abramo”, espressione questa che evidentemente è sembrata poco dignitosa – stare davanti a un altro vuol dire quasi servirlo – e quindi è stata mutata nel contrario: “Abramo stava davanti a Jahvé”. Tuttavia, fa notare bene von Rad: “Jahvé davanti ad Abramo” è quasi un Jahvé che vuol essere interrogato, un Jahvé che desidera che Abramo gli dica qualcosa, che gli chieda di entrare a far parte dei suoi disegni, ed è là, in silenzio, pronto a ricevere la parola di Abramo, il quale interroga Dio, perché Dio stesso desidera manifestarsi.
Ed ecco il principio giuridico che precede la contrattazione: “Abramo gli si avvicinò e gli disse: Davvero sterminerai il giusto con l’empio?” Lo stesso principio viene ripreso anche dopo: “Lungi da te far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio, lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?” Abramo si richiama ad un concetto di giustizia che – come vedremo – ha già un significato di forte superamento rispetto alle concezioni ordinarie del tempo.
E poi la contrattazione
Forte di questo principio, Abramo prende Dio di petto: “Forse ci sono nella città cinquanta giusti; davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?” Abramo parla concitatamente, mai ha parlato tanto come qui. “Rispose il Signore: se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città”. C’è un salto di qualità formidabile in questa risposta rispetto alla mentalità del tempo. Avendo Dio accettato il criterio giuridico basato sul numero, Abramo è sicuro adesso di questo punto di partenza e scende, scende in cinque momenti successivi da 50 a 45, da 45 a 40, da 40 a 30, da 30 a 20, da 20 a 10.
È interessante il passaggio tra questi momenti, perché eccetto il caso dei 40, tutti gli altri sono sempre preceduti da una affermazione di umiltà. “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere. Forse ai 50 giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque tu distruggerai tutta la città? Rispose: non la distruggerò se ne trovo 45”. Uguale risposta se saranno 40. Poi di nuovo la stessa domanda: “Riprese: Non si ·adiri il mio Signore se parlo ancora, forse là se ne troveranno 30. Rispose: non lo farò se ne troverò 30”.
E così fino a 10: “Non la distruggerò per riguardo a quei 1O”. E qui il dialogo si ferma: “Poi il Signore, come ebbe finito di parlare con Abramo ritornò alla sua abitazione”. E noi restiamo così un po’ incuriositi: ma perché si è fermato a 1O, cosa è successo? La realtà è che Sodoma è distrutta.
Il significato per noi di questo episodio
Che cosa ci vuol dire tutta questa storia, che è abbastanza misteriosa, anche un po’ conturbante? Volendo fare qualche riflessione, si direbbe anzitutto che si tratta di una contrattazione abile, scaltra. Abramo è un ottimo commerciante. Prima si assicura l’accettazione del principio generale; poi, forte di questo principio, tira, tira dicend9 che il principio vale anche riducendo il numero. E una contrattazione non solo abile, ma anche accanita. Abramo non cede. Per quale motivo? La prima idea che mi viene è questa: Abramo vuol arrivare al numero dei membri della famiglia di Lot; pensa che tra Lot, le figlie e qualche amico siano almeno una diecina; e si ferma a questo punto perché di più veramente sarebbe troppo ottenere. Questa direi, è l’impressione che il colloquio fa ad una lettura un po’ ovvia. Tuttavia leggo qui una pagina di von Rad che mi sembra molto importante, perché ci fa andare più oltre. Dice: Il colloquio, che non è senza ironia, svolge una grave questione di fede. Qui c’entra tutta una teologia dello Jahvista. Non si tratta di un fatterello antico, è lo Jahvista che considera il rapporto tra Dio e l’uomo che ha scelto e il mondo. Non si tratta soltanto del caso di Sodoma e di salvare Lot. Sodoma è soltanto un caso limite che serve come esempio per dimostrare una tesi teologica. Sodoma non è più considerata espressamente come una città estranea al popolo dell’alleanza, quasi che Sodoma può perire, purché si salvi Israele. Al contrario, per lo stesso Israele, Sodoma è il tipo di una comunità umana, sulla quale gli occhi di Jahvé si volgono per giudicarla. E un caso tipico di come Jahvé giudica il mondo, di come avviene il giudizio di Jahvé sul mondo.
Una peccaminosità collettiva
Evidentemente la prima interpretazione che si poteva pensare e in qualche maniera dedurre dalla parola di Dio: “Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande, il peccato è molto grave”, è quella che applica l’idea del mondo antico, che considera i gruppi come solidali tra loro; se è un gruppo in cui la maggioranza pecca, questo gruppo è un gruppo peccatore, perché, concretamente, la libertà personale è molto ridotta e la solidarietà è estrema, tutti sono coinvolti. Questa mentalità è espressa molto bene da Abimelech al cap. 20, vers. 9: “Abramo, ma che cosa hai fatto e che colpa ho commesso contro di te, perché tu hai esposto me e il mio regno a un peccato tanto grande?”. Quindi il peccato di Abimelech è un peccato del regno. Cioè questa solidarietà è talmente vissuta, che quando in una città molti sono peccatori, la città è peccatrice. Quindi, nell’idea della solidarietà del mondo antico, il giudizio colpisce tutta la città, perché il singolo praticamente segue, è coinvolto nel peccato comune. Non si ammette che ci siano delle eccezioni. Tutti sono solidali di tutto ciò che nella città avviene e partecipano al peccato di essa.
Ora di fronte a questa mentalità abbiamo già qui un primo superamento: “distruggerai il giusto con l’empio?” Che cosa chiede questo primo superamento? Chiede quello che dopo affiorerà sempre più chiaramente in Israele: la responsabilità individuale; cioè non condanniamo una città nel suo intero, perché gran parte di essa ha prevaricato; se vi sono dei giusti, facciamoli uscire liberi, perché la giustizia vuole che a ciascun uomo venga riconosciuta la propria responsabilità. Però il dialogo di Abramo con Dio va molto più al di là, perché nelle parole di Abramo: “sterminerai il giusto con l’empio? sopprimerai questi 50 giusti?” siamo ancora a livello di chi dice: almeno separa i 50 giusti.
Un Dio che vuol salvare perdonando a tutti
Ma la risposta che Dio dà supera di molto la domanda: se a Sodoma troverò 50 giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città. È tutta un’altra concezione che qui entra: non si tratta semplicemente di separare il giusto dall’ingiusto, ma di fare più conto di alcuni giusti che di una moltitudine di peccatori e, rovesciando la solidarietà in vicarietà, di salvare tutta la città in vista di alcuni. Evidentemente così si instaura un nuovo concetto di giustizia: non quella giustizia che vuol dare a ciascuno il suo e mette da una parte i peccatori e i giusti dall’altra, ma una giustizia che cerca di salvare tutti, e per questo si serve dei giusti e fa leva su di loro. Noi però ci domandiamo: perché Abramo si ferma a 10? Anche von Rad se lo domanda e dice: per il redattore Jahvista non si poteva andare più in là; 10 sembrava un minimo assoluto. Di fatto la soluzione che Dio segue è quella della responsabilità individuale, cioè salva Lot giusto e distrugge la città peccatrice. In questa visuale chiedere di più sembrava irraggiungibile. Era una cosa immensa che per 1O persone si salvasse una città.
Ma qui abbiamo la base di quella teologia che emergerà poi in tutta la sua potenza in Isaia 53: per uno solo giusto Dio salverà tutto il popolo. Quindi Abramo lotta per una nuova conoscenza di Dio, del Dio della salvezza, cioè di quel Dio che vuole talmente salvare, che per uno è disposto a perdonare a tutti e si fa quell’uno per perdonare tutti. Qui veramente la preghiera è insieme lotta. E veramente estenuante per Abramo questo contrattare fino in fondo, ed è teologia, cioè è una nuova conoscenza di Dio che si sviluppa e viene poi espressa nella teologia dello Jahvista.
Von Rad volendo esprimere questo dice: Jahvé ha un rapporto di comunione anche con Sodoma; questo rapporto risulta spezzato per i peccati della maggioranza dei suoi abitanti e include anche i pochi innocenti; eppure la giustizia di Jahvé verso Sodoma si manifesta proprio nel fatto che in vista di questi innocenti egli risparmia la città. Certo, dice von Rad, la cosa non è espressa da Abramo al cospetto di Dio, come se si trattasse di un postulato teologico, ma sotto formula di umile domanda e con cuore angustiato. L’eccitazione gli fa salire alle labbra molte parole. Evidentemente lottano dentro di lui il senso del rispetto dovuto a Dio e l’urgenza del problema che la fede gli pone. E qui cita Ger 12,1, che mi pare interessante leggere in questo contesto: “Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te, ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia”. È una preghiera di intercessione e di penetrazione teologica: Signore, vorrei conoscere meglio la tua giustizia. Poi comincia: “Perché le cose degli empi prosperano?” e giù tutta una serie di domande.
Abramo prende sempre maggior coraggio
Contrariamente all’uomo moderno, Abramo sa bene che, polvere e cenere quale egli è, non ha alcun diritto di ragionare con Dio, ma è magnifico vedere come, man mano che la conversazione procede, di fronte alla grazia benevolmente concessa da Jahvé, egli prende sempre maggior coraggio, sempre più arditamente fa leva sul potenziale di una giustizia che non ignora il perdono, e si avventura sempre più avanti, fino a ottenere questo sorprendente responso: che persino un esiguo numero di innocenti agli occhi di Dio conta più di una maggioranza di colpevoli; e così è in grado di fermare la sentenza.
Possiamo dunque concludere dicendo: chi è Abramo? Come si presenta qui Abramo? Abramo è l’amico di Dio ardito fino alla sfacciataggine, perché vuole conoscere Dio fino in fondo, e potremmo quasi dire che, in questa sua sfacciataggine, gli è molto perdonato perché ha molto amato; cioè vuole amare Dio immensamente e vuole talmente capirlo e giustificarlo agli occhi di se stesso e del mondo, che gli fa le domande più audaci. Abramo lotta con Dio anche perché si sente responsabile davanti a Dio del suo fratello e della città dove suo fratello vive, al quale quindi è legata; e lotta con Dio con lo stesso accanimento con cui ha lottato con i suoi 318 uomini contro i quattro re. Lotta e preghiera. Abramo si è buttato nella lotta fino alla morte per salvare Lot e qui si butta nella preghiera fino quasi all’irriverenza; ma lo fa nella pienezza della fede per capire il disegno di Dio e per conoscere il problema di fondo della giustizia di Dio verso l’uomo. Per questo motivo ho collegato nel titolo, “preghiera-lotta-teologia”; teologia ossia conoscenza di Dio. Attraverso tutte queste realtà l’uomo cerca di capire chi è il Dio della salvezza, il Dio vero; non quello che io mi immagino e penso, ma il Dio che agisce, giudica, opera, salva.
Un tipo di preghiera che si trova anche nel N. T.
Dopo questa proposta generale che riguarda Abramo faccio una seconda proposta di temi neotestamentari: Rm 15,30-31; 2 Cor 1,11; Ef 6,18; Col 4,3; 1 Ts 3,10. Sono testi molto interessanti perché parlano delle preghiere drammatiche che Paolo chiede alla comunità o fa per la comunità. C’è lo stesso senso di responsabilità che Paolo ha per il piano di Dio, di corresponsabilità dei cristiani per questo piano, di coinvolgimento nella preghiera di intercessione, perché questo piano di Dio si chiarisca, si manifesti, la parola corra ecc. Penso che possa essere interessante meditare sulla preghiera di intercessione vera del cristiano come quella di Abramo, come fa Mosè quando dice: Cancellami dal libro della vita, ma salva questo popolo; come fa Paolo: Vorrei essere anatema per i miei fratelli. Una preghiera che suppone un coinvolgimento suppone un affetto profondissimo.
Non è la semplice preghiera che qualche volta si fa per qualche intenzione: “ascoltaci, Signore”, che coinvolge fino a un certo punto. La preghiera fatta per coloro di cui portiamo una grave responsabilità, di cui abbiamo assunto il peso, con cui partecipiamo un rischio è quella che ci porta a questa penetrazione ardita, sfacciata dei disegni di Dio. Perché se non conosciamo questo disegno, come possiamo chiedere che si adempia? E non lo conosciamo perché non conosciamo Dio. Chiediamo dunque di conoscerlo, perché il suo disegno si compia, la parola corra, la parola si manifesti, le porte del Vangelo si aprano ecc., tutte frasi di Paolo in questo contesto.
Per ampliare il tema, possiamo ricordare il testo sulla preghiera di intercessione di Gesù in Eb 5,7, che con forti grida e lacrime fa per il mondo. E un testo che va interpretato meditando sull’agonia del Getsemani; anche questo un testo molto istruttivo per il coinvolgimento drammatico di Gesù nella preghiera. Infine il salmo 42-43, che è uno dei salmi di lamentazione più belli: “Perché, Signore, me ne vado triste? perché mi succede questo?”
Un passo evangelico alternativo potrebbe essere quello molto breve in Le 3, 21-22 del battesimo di Gesù. Secondo Luca Gesù è in preghiera, e quando Gesù prega adorando il Padre intercede per il mondo, e in questa preghiera, mentre egli si coinvolge nel battesimo con la nostra situazione, il Padre si rivela. E u n testo, direi, fondamentale sul coinvolgimento di Gesù nella preghiera, sulla sua partecipazione, sulla sua solidarietà con noi.
Ancora un testo evangelico che si potrebbe meditare sono le parole di Le 11, 1-13, sull’insistenza, l’urgenza, l’importunità della preghiera, la sfrontatezza della preghiera, che mi pare rifletta bene quello che si dice di Abramo. Come testo di lettura potrebbe essere utile la preghiera che Paolo chiede in 2 Cor 1,6-11 per una situazione drammatica della sua vita, coinvolgendo la comunità nelle sue paure e nelle sue sofferenze.