tratto dal volume “Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo – Lettura narrativa e antropologica della genesi” di Andrè Wènin
Il progetto degli umani a Babilonia (11,1-4)
«E successe, allorché tutta la terra era un linguaggio unico e delle parole uni che…» (v. 1). Quel che il narratore sottolinea con queste parole non è solo che tutta la terra – cioè tutti gli umani che la popolano – parla la stessa lingua. Queste persone fanno anche lo stesso discorso, ripetono parole identiche. In questo modo viene evocata meno la loro unità quanto piuttosto la loro uniformità, l’assenza di distinzione tra di loro. Del resto, un po’ più avanti, al v. 3, questa affermazione viene illustrata concretamente: il narratore mostra come tutte queste persone si dicano l’un l’altra la stessa cosa, recitando pappagallescamente le stesse parole. È comunque quel che suggerisce il carattere ripetitivo dei propositi che scambiano tra loro, letteralmente: «Mattoniamo mattoni e cuociamo in cottura». Si noterà del resto che si esprimono alla prima persona plurale. Il loro discorso non ha quindi altro interlocutore che coloro che lo pronunciano. Non c’è spazio per un qualche «di fronte»: tutti sembrano inglobati in questo «noi» di stampo autistico.
Dopo aver sottolineato la situazione iniziale, la mancanza di distinzione che caratterizza «tutta la terra», il narratore aggiunge che si spostano «verso oriente». Ora, fin dall’inizio del libro, i movimenti verso oriente sono connotati in modo negativo. In Gen 3,24, Adamo ed Eva si allontanano «a oriente» del giardino di Eden e dell’albero della vita, mentre in 4,16 Caino «esce» lontano dalla faccia di Adonai, anch’egli «a oriente di Eden». Uno spostamento verso oriente potrebbe, quindi, costituire una forma di allontanamento rispetto a Dio. Del resto, conduce queste persone in una pianura del paese di Shinear che, secondo 10,8-12, è il luogo della capitale di Nimrod, Babilonia, culla degli imperi oppressori. Giunti nel paese che si sa essere quello di Nimrod, gli umani immaginano il progetto che non tarderanno a mettere in opera.
Nel modo in cui lo formulano, il loro progetto è piuttosto strano: cuocere dei mattoni. Non sarebbe forse più logico elaborare, in primo luogo, un piano d’insieme – la città da costruire – e solo in seguito prendere in considerazione il modo concreto di realizzarlo e pensare ai materiali da usare? Ma il narratore, col suo modo di raccontare le cose, fa pensare che queste persone confezionino dei mattoni ancor prima di sapere a cosa debbano servire. Mette così in evidenza il lavoro ripetitivo e senza uno scopo preciso, un lavoro da schiavi, in verità, nella misura in cui questi non devono prendere in considerazione lo scopo del loro compito: il padrone ci pensa per loro. Che questo lavoro sia un compito da schiavi non stupirà certo chi legge la Bibbia: nei giorni della loro servitù in Egitto, gli ebrei sono costretti a confezionare mattoni per le città costruite da Faraone.13 Ora qui, a priori, le persone che par lano non sono schiavi. Eppure, sembra che si incoraggino a vicenda a portare avanti questo lavoro, come se scegliessero loro stesse una vita di schiavitù.
Poi, proseguendo in un linguaggio ripetitivo, come per prolungare l’impressione che queste persone ripetano continuamente parole simili, il narratore suggerisce che i mattoni devono servire alla costruzione di edifici: «E il mattone servì loro di pietra mentre il bitume servì loro di malta». Che effetto produce questa osservazione a livello di significato? Credo dipenda dalla differenza tra i mattoni e le pietre sulla quale il narratore attira l’attenzione. Mentre queste sono tagliate e quindi spesso non sono regolari, i primi, confezionati in una forma standard, sono uniformi e si accostano gli uni agli altri con grande regolarità. È così che un bitume liscio basta per assemblare i mattoni con precisione, mentre una malta più consistente sarà necessaria per colmare i vuoti tra le pietre. Se è così, i materiali scelti non riflettono forse gli stessi costruttori, che si iscrivono in una società senza alterità, formando un blocco compatto a immagine di un muro uniforme di mattoni?
A questo punto il narratore restituisce la parola ai suoi personaggi e fa sentire il seguito del loro progetto: costruire una città con una torre «la cui testa è nei cieli». Costruire una città non ha solo una dimensione urbanistica, ma presuppone anche uno scopo politico: un progetto di società, un’organizzazione comune. In questo ambito, la torre non è probabilmente solo un punto di riferimento visibile ovunque, come sottolineato sopra. Si tratta anche, molti autori lo pensano, di un tempio, luogo d’incontro tra gli umani e i loro dèi e, quindi, anche un modo, per i costruttori, di sacralizzare il loro progetto, di legittimarlo con una presenza divina. Per di più, in ebraico, il termine migdal, «torre», può anche indicare un’acropoli. Nel caso presente, questa cittadella è resa imprendibile dalla sua sola altezza. In questo senso, è un segno di potenza affermata, ma anche di una volontà di difesa di fronte all’esterno. Indubbiamente, questa città che si sta elevando nella pianura di Shinear inizia a somigliare a quel che deve essere la capitale di Nirnrod, alla qua le il narratore accenna in 10,10.
Pertanto, le persone che, proponendosi di cuocere dei mattoni, sembrano scegliere la schiavitù per loro stesse, hanno probabilmente un padrone. Una nuova ambiguità dell’ebraico permette di precisare questa idea. La parola ro’sh, «testa», che al v. 4 indica l’apice della torre, può significare anche, come in italiano, il «capo», un capo che collocherebbe il proprio trono molto in alto, vicino al cielo, come suggeriva già André Neher. E chi potrebbe essere questo capo, se non Nimrod, la cui capitale (ré’shft, la «testa») è proprio situata nella terra di Shinear?
Il seguito del racconto permette di precisare ancora questa intuizione. Il narratore fa intendere le indicazioni che i costruttori formulano riguardo allo scopo del loro progetto. Questo viene prima espresso positivamente: «Che facciamo per noi un nome». La frase conferma che si tratta proprio di un progetto politico. In fatti, l’espressione «fare un nome a qualcuno» non è neutra nel linguaggio biblico. In 2 Sam 7, ad esempio, Dio promette a Davide, che si è appena installato nella sua capitale, di «fargli un nome» (v. 9) rendendo stabile la sua dinastia (vv. 11-12) e il suo trono (v. 16). L’espressione ha quindi di mira l’instaurazione della fama e del la gloria di un re e della sua dinastia; include l’unificazione del popolo intorno a una città, la capitale, che diventa così il cuore di un potere centralizzato.
Se è così, il «nome» di cui si parla nelle parole dei costruttori è più quello del re che stanno portando al potere, che quello del popolo. Queste persone si pro pongono quindi, in un certo qual modo, di rientrare nei ranghi per formare una massa uniforme di schiavi volontari sottomessi a un re del quale assicureranno la reputazione e la gloria. Ma perché questo desiderio? Basta, per saperlo, ascoltare le ultime parole del loro discorso: «Per timore di essere dispersi sulla faccia di tutta la terra». Quel che spinge questa gente non è altro che la paura di esporsi al rischio della dispersione e della fragilità che inevitabilmente essa comporta. A questo rischio preferiscono la schiavitù all’ombra del re Nimrod – questo guerriero leggendario di cui si sa che non è privo di argomenti per proteggere i suoi sudditi (Gen 10,8-9).
Un’altra riflessione, però, va fatta a proposito del progetto così formulato. È notevole, infatti, che, contrariamente a Davide, al quale Dio promette di «fare un nome», qui siano le persone stesse a pretendere di darselo, nel desiderio autistico di non dover ricevere la loro identità da un altro, da uno straniero. La paura della dispersione appare pertanto anche come il timore di perdere la propria identità essendo, nella dispersione, confrontati con l’incognito. In questo senso, è probabilmente sintomatico vedere come, quando promette di «fare un nome» a Davide, Adonai rifiuti allo stesso tempo di farsi costruire un tempio dal suo eletto (2Sam 7,5-7). Tutto si svolge come se non volesse che lo si strumentalizzi, foss’anche indirettamente, per sacralizzare il potere di un giovane re che pure ha scelto lui stesso. Su questo sfondo, la torre di cui parla il racconto acquisisce una dimensione supplementare. Pur volendo farsi loro stessi un nome, i costruttori della città cercano comunque una legittimazione sacrale al loro progetto: agiscono come se aspettassero che una divinità scendesse dal cielo sulla loro cittadella -santuario, per benedire la loro impresa e per sacralizzare il potere del loro capo.
A questo punto della lettura, si percepisce meglio, probabilmente, la funzione del doppione formato dall’introduzione di Babilonia come capitale di Nimrod in 10,10-12 e dal racconto dell’edificazione della città e della sua torre in 11,2-4. Pro cedendo in questo modo, il narratore fornisce due versioni, per così dire complementari, della nascita di questa capitale dell’impero (come i «due» racconti di crea zione). Al capitolo 10, essa è quel che genera in «principio» (in ebraico ré’shft ) un guerriero cacciatore come Nimrod: un regno dalla potenza arrogante, centralizza to intorno a una capitale. In 11,2-4, il narratore riprende le cose dall’altro capo: quel che rende possibile un progetto politico del genere è anche un popolo che te me la libertà tanto quanto la differenziazione e la singolarità da essa presupposta. Allora, nella speranza di sfuggire a quel che percepisce come una minaccia, questo popolo sostiene il capo e nutre la pretesa totalitaria che porta in sé, senza temere di sacralizzarla dandole, in apparenza, l’avallo di Dio.
A questo punto dell’analisi, si intuisce che il progetto di Babilonia è il totalitarismo. Esso sembra avere due motori. Da una parte, la complicità di un popolo con la propria schiavitù, complicità mossa dal timore della dispersione e dalla debolezza che risulterebbero da questa scissione e dal confronto con lo straniero – un timore che è anche, del resto, paura della libertà. Dall’altra, l’opportunismo di un principe che mette a frutto il desiderio e le angosce del popolo per farsi un nome e consolidare il proprio potere. Viene, quindi, a suggellare con il sigillo della propria volontà la sete popolare di un’unione rassicurante e a imporre a tutti il «pensiero unico» (il «linguaggio unico» e le «parole uniche» del v. 1) che gli chiedono di garantire. Così, l ‘unità si realizza sul modo del l’uniformità e tende a livellare le differenze, a cancellare le singolarità degli individui e dei gruppi, e a eliminare i dissensi reali o potenziali. Ma quel che il racconto suggerisce con grande chiarezza è che il totalitarismo nasce sulla base di una convergenza di interessi: paura della libertà e della differenza, da un lato (11,4), sete di potere, dall’altro (10,8-10).
L’intervento di Adonai (11,5-9)
Mentre i costruttori sono al lavoro, Adonai scende per vedere la loro impresa. Quale sarà la sua reazione? Prenderà posto in cima alla loro torre-santuario sacralizzando così il loro progetto? È impossibile. La lista del capitolo precedente non ha forse dimostrato che la diversificazione degli umani va nel senso della benedizione e della volontà divina? In realtà, il progetto totalitario dei costruttori della città prende chiaramente in contropiede il disegno di Dio abbozzato nei primi episodi della Genesi. Fin dal racconto della creazione (Gen 1), infatti, la sua opera consiste nel distinguere, nel separare, in modo che possa costruirsi un’armonia ricca delle diversità, grazie a dei legami di alleanza che rispettino le differenze. In questo modo, la disparità degli esseri è essenziale per la vita. Si capisce pertanto che qui Adonai interviene per ostacolare il processo di uniformazione, di «decreazione», potremmo dire, di questo progetto portatore di morte.
Del resto, il modo stesso di organizzare il racconto dimostra che la risposta divina consiste proprio nell’opporsi attivamente al progetto dei costruttori. In uno studio interessante, Jan P. Fokkelman ha messo in evidenza diversi giochi di simmetrie rivelatrici. L’osservazione minuziosa del testo permette, infatti, di evidenziare due organizzazioni diverse partendo dalle parole e dalle espressioni che si ripetono e dalle opposizioni che fanno emergere queste ripetizioni. Una prima organizzazione mette in evidenza il parallelismo tra due parti.
A Tutta la terra … una lingua unica e delle parole uniche (v. 1)
B «sul Mattoniamo [havah nilvenah] … e cuociamo … (v. 3)
C costruiamo-ci una città … (v. 4)
D facciamo per noi un nome …
E per timore di essere dispersi sulla faccia di tutta la terra».
A’ «Un popolo unico e una lingua unica … per loro tutti … (v. 6)
B’ sul Scendiamo e confondiamo [havah… navelah] …» (v. 7)
C’ e smisero di costruire la città (v. 8)
D’ egli chiamò il suo nome «Confusione » [bavèl] (v. 9)
E’ Adonai li disperse sulla faccia di tutta la terra.
Questo schema riprende degli elementi fondamentali del racconto, poiché, percorrendoli, si capisce la storia che narra. Vi è ben messa in rilievo l’opposizione tra il progetto dei costruttori della città (prima parte) e la reazione di Adonai (seconda parte). I primi tentano di suggellare la loro unità (A e E) costruendo una città (B e C) e facendosi in questo modo un nome (D). Constatando questa unità (A’), Adonai decide di intervenire (B’); la costruzione viene allora interrotta (C’) e Adonai consacra la diversità, fatto notificato da un nome che stigmatizza il falli mento degli umani (D’ e E’). La simmetria è regolare: l’azione divina corrisponde bene a quella degli umani.
Il centro del testo non appare in questa prima struttura. Si tratta, infatti, del solo elemento che non ha altrove corrispondente nel racconto. Una struttura con centrica permette di evidenziarlo.
A Tutta la terra era una lingua unica (v. 1)
B si stabilirono lì (v. 2)
C dissero ognuno al suo compagno (v. 3)
D «su! Mattoniamo dei mattoni [havah nilvenah levénìm]
E costruiamo per noi (v. 4)
F una città e una torre e la sua testa nei cieli …» X E Adonai scese a vedere (v. 5)
F’ la città e la torre
E’ che costruivano i figli dell’umano
D’ «su! Scendiamo e confondiamo [havah neredah wenavelah] (v. 7)
C’ che non sentano ognuno la lingua del suo compagno»
B’ e Adonai li disperse da lì (v. 8)
A’ Adonai confuse la lingua di tutta la terra (v. 9)
Anche qui, le corrispondenze tra una parte e l’altra sono significative. La ripetizione di alcuni elementi permette di nuovo di seguire l’essenziale della stona, ma stavolta sottolineando il centro dell’insieme (X): la scesa di Adonai che viene a vedere l’impresa degli umani (da E a E’). Anche qui, dopo aver visto, Adonai adotta un atteggiamento che risponde punto per punto a quel che fanno i costruttori: Il loro progetto si oppone al suo (D e D’), quindi Adonai lo rende impossibile impedendo la comunicazione tra di loro (C e C’): provoca la loro dispersione (B e B’) confondendo la lingua unica di tutta la terra (A e A’).
Da queste simmetrie, appare che, effettivamente, Adonai si adatta a quel che gli umani intraprendono, in modo da disfare il loro progetto sistematicamente. Questo appare chiaramente nelle parti parallele delle due strutture messe m luce e che hanno, tutto sommato, pochi elementi comuni. Le ripetizioni sottolineate dal primo schema evidenziano maggiormente l’ambizioso progetto del popolo unico, dalle parole uniche alla sua dispersione; quelle del secondo schema mettono meglio in risalto l’aspetto di rottura di comunicazione inerente a questa dispersione e la centralità dell’intervento divino.
Quindi, Adonai si oppone chiaramente al progetto dei costruttori. Ilsuo modo di fare, però, merita che ci si soffermi un po’ sopra. Il narratore inizia col dare a intendere quel che Dio dice a se stesso di fronte al progetto degli umani. Ciò su cui sfocia la loro unità lo mette in allarme. «Ecco – dice tra sé e sé: se questo è proprio quel che iniziano a fare, adesso, niente sarà loro impossibile di tutto quello che mediteranno di fare». Se si tratta solo di costruire una città con una torre alta, non si capisce bene perché Adonai sembri tanto preoccupato. In compenso, se il pro getto è politico, ha ragione di preoccuparsi. Niente, infatti, è impossibile al totalitarismo generato dalla paura della differenziazione e dal desiderio di uniformità, co me anche dalla volontà di potenza del principe portato al potere da questa paura. Ma se niente è impossibile a tale regime, lo è al prezzo del diniego degli individui, della loro singolarità e della loro libertà, sacrificata sull’altare del progetto totalitario, a gloria del nome del capo. Poiché, se tutti si schierano dietro un solo nome, poco importa il nome di ognuno … Uno schiavo non è forse un numero?
Adonai non vuole questo. È, infatti, l’esatto contrario di quel che desidera quando crea in vista di alleanze portatrici di vita. Pertanto, per assicurare il suo pro getto, per garantire la possibilità del pieno sviluppo della vita, adotta una misura preventiva destinata ad arrestare la macchina che si è messa in moto: «Su! Scendiamo, confondiamogli il loro linguaggio, e non capiscano più ognuno il linguaggio del suo compagno». Parlando alla prima persona plurale – uso quasi sconosciuto dall’ebraico biblico: colui che fa un soliloquio lo fa infatti al singolare -, Adonai ricorre a una costruzione che risponde al «noi» degli umani. Per di più, come appare ne gli schemi qui sopra, i verbi che usa fanno eco, con un gioco di allitterazioni, a quel che gli umani si dicevano l’un l’altro (vv. 3-4). Parlando in questo modo, Dio, quindi, risponde indirettamente agli schiavi costruttori. Mentre gli umani vogliono esse re un «noi» inglobante, un noi senza «di fronte» e senza altro, Adonai impone loro un altro «noi» che non parla il loro stesso linguaggio. In tal modo, si prepara a impedire loro di compiacersi nell’uniformità, nella non differenza.
Sbarrare la strada a quanto è indifferenziato: è proprio di questo che si tratta, infatti. La prima misura presa da Adonai in tal senso, la sola di cui parli esplicitamente, è confondere la lingua unica. In questo modo, pensa, non si capiranno più «l’un l’altro» (v. 7b) quando, parlando «l’uno con l’altro» (v. 3a), si incoraggeranno nel loro progetto comune. Confondendo il loro linguaggio, Adonai accentua e con sacra le differenze che gli umani sacrificano al «noi» totalitario. In tal modo sarà ormai impossibile a chiunque negare la propria singolarità e sognare un’uniformità autosufficiente. Avvalorando la diversità, accentua la difficoltà di qualsiasi comunicazione, in modo tale che nessuno creda di comunicare o di essere in comunione, se non ha innanzitutto accolto l’alterità dell’altro, se non ha accettato e attraversato le sue differenze, rispettandole.
Dopo aver parlato di confondere il linguaggio – cosa che farà ben presto (v. 9) -, Adonai inizia col disperdere gli umani sulla faccia di tutta la terra, mettendo un termine, allo stesso tempo, alla progressione del progetto totalitario. Questa dispersione dell’umanità, che va di pari passo con la moltiplicazione delle lingue, sembra, a prima vista, negare il valore dell’unità, mentre spezza un desiderio, di per sé legittimo, degli esseri umani. Ma osservando le cose con maggiore attenzione, ci si accorge che non si tratta di questo. In realtà, Adonai offre una nuova possibilità agli abitanti di Babilonia, dato che consacra delle differenze indispensabili per la loro vita e il suo felice sviluppo. Lungi dal privarli dell’unità che desiderano, non fa altro che impedire loro di prendere una scorciatoia che li porterebbe a negare il valore che vogliono raggiungere, oppure a pervertirlo in un’uniformità riduttrice e soffocante. Agendo in questo modo, Adonai procede esattamente come quando ha cacciato gli umani dal giardino di Eden e fatto custodire il cammino dell’albero della vita (3,22-24). In questo caso, non è affatto un Dio geloso che vorrebbe impedire agli umani di cacciarlo dal trono. Si tratta, al contrario, di un Dio appassionato della vita e della libertà degli umani, un Dio che si prende cura di ostacolare qualsiasi deriva totalitaria che potrebbe minacciare questi valori insostituibili.
Infine, dando lui stesso alla città interrotta un nome che rimanda alla confusione del linguaggio mediante un gioco di parole, Adonai sottolinea che impone proprio un’alterità a coloro che volevano «farsi un nome», forgiarsi un’identità senza altro. La sua decisione va quindi proprio nel senso di un’autentica alleanza. Del resto, il nome bavèl ha qualcosa di curioso. Da una parte, il gioco di parole del narratore evoca la confusione (balal) del linguaggio e la dispersione dell’umanità (v. 9). Dall’altra, nella lingua dei babilonesi, il nome significa «porta di Dio». Questa curiosità mi sembra nascondere un paradosso. La diversificazione dell’umanità, in fatti, è un’opportunità nel senso in cui costituisce una «porta» per andare verso Dio, per andare verso «l’Uno», ma questa volta, senza scorciatoie – incamminandosi con pazienza sulle vie dell’alleanza. In questo senso, Babilonia è una benedizione. Per quanto riguarda poi la dispersione degli umani e la diversificazione delle loro lingue, queste si iscrivono perfettamente nella dinamica della creazione, come già sottolineava, a modo suo, il capitolo 10. Non in quanto tali, ma perché sono il luogo a partire dal quale si disegnano il compito e la vocazione dell’umanità, una vocazione abbozzata fin dal capitolo 1: diventare una «a immagine di Dio».
Per aprire il racconto …
Collocato nel suo contesto attuale, il racconto della costruzione di Babilonia costituisce una critica radicale a qualsiasi tentativo totalitario di realizzare l’unità degli umani. Se, infatti, il capitolo 10 ricorda l’unità fondamentale dell’umanità facendola discendere da un solo antenato, evoca anche il suo brulichìo e la sua molteplicità, che possono essere aboliti solo al prezzo di un livellamento e di un impoverimento. Adonai, però, non sembra potervisi rassegnare. Questo è, a quanto fa re, il cuore di questo famoso racconto. Ma allora, l’unità degli umani e dei popoli è forse estranea al progetto divino? Probabilmente no. Ma il racconto di Gen 11,1-9 suggerisce che, se Dio desidera l’unità, non la desidera al prezzo dell’abolizione delle differenze. Il lettore lo sa fin dal capitolo 9: Adonai è un Dio di alleanza e un’alleanza può essere vissuta solo dove i partner sono loro stessi, con le loro particolarità e le loro singolarità, e si assumono il rischio di creare un luogo di mutuo scambio e arricchimento.
Detto questo, il racconto di per sé evoca un progetto politico che consiste nel costruire una città e nell’organizzarsi in società. Tuttavia, come quando si tratta di un racconto mitico, questa evocazione viene fatta in modo sufficientemente allusi vo, come se fosse necessario evitare di ridurre il significato a questo solo ambito della vita umana. In realtà, qualsiasi collettività umana preoccupata della propria unità – che voglia ottenerla o mantenerla – è esposta, qualunque sia la sua importanza, alla tentazione dei costruttori di Babilonia: l’uniformità. E l’uniformità è sempre sintomo, da un lato, della vittoria (più o meno visibile) della logica di uno solo, e dall’altro, dell’adesione (più o meno volontaria) degli altri, oppure della lo ro abdicazione (più o meno consapevole). Questo tipo di unità, ci avverte il racconto, non è solo un vicolo cieco per l’umanità, ma è anche contraria al desiderio del Creatore.