da “Oreundici” di dicembre 2003
L’alitare del vento di Trevi mi riporta al dialogo aperto con gli amici di Trevi e con altri incontrati nei viaggi per l’Italia e penso con particolare simpatia agli incontri di Napoli, di Bologna, di Bolzano e al bellissimo episodio di Iesi in coppia con Salvatore Natoli che da tempo desideravo conoscere. Mi soffermo un momento per dirvi che è stata una conoscenza che mi ha riempito di gioia. Normalmente quando si conosce uno scrittore attraverso le opere, lo idealizziamo e nel trovarlo davanti a noi in carne ed ossa spesso proviamo una delusione. Ma non è stato assolutamente così caso quando, sceso dal treno dalla stazione di Ancona, mi sono trovato davanti Salvatore: l’opposto di un freddo professore universitario. Salvatore è un comunicatore pieno di entusiasmo, uno che non trasmette parole ma , per dirlo evangelicamente, spirito e vita.
Dovunque sono andato ho sentito rinnovarsi in me la gioia di essere un ospite.
E vorrei cominciare questo dialogo parlandovi proprio della gioia di essere ospite. Da quando ci siamo lasciati nell’ultimo articolo, sono stato sommerso nella lettura di un libro non ancora edito che un amico ben conosciuto e apprezzato dagli habitués di Trevi mi ha chiesto di presentare. Il libro ha il titolo, non so se provvisorio o definitivo, “L’essere in questione”; l’autore è Sandro Tarter che pensa e scrive sulla traccia di Emmanuel Lévinas. Il capitolo centrale di questo libro è “filosofia dell’ospitalità” e ,prima di parlarvene teoricamente, ho voluto comunicarvi la gioia di sentirmi ospite. Non ho un appartamento mio con il regolare titolo di proprietà. E credo sia una condizione esistenziale importante, per non dire necessaria, per gustare profondamente la gioia di essere accolti. Una delle mie prime pubblicazioni fu un commento al capitolo 10 di Luca, quello in cui Gesù mette sulla strada i discepoli. Dei laici senza titoli incaricati di un messaggio incluso in una sola parola: pace. Il Maestro si trattiene a descrivere l’uniforme di questo inviato. Mi diverte confrontare questa toilette con i lussuosi abiti disegnati in oriente e in occidente che indossano coloro che hanno la missione di rappresentarlo. Colui che è direttamente inviato dal Maestro deve andare col minimo necessario. Una mini-tunica, possibilmente scalzo o semplicemente con i sandali, penso a quelle semplicissime calzature con le quali i poveri del Brasile percorrono migliaia di chilometri e non devono portare nessun bagaglio nemmeno quello filosofico, teologico, catechetico perché l’essenziale non è quello che diranno, l’essenziale è portare la grazia dell’ospite. Quanta bellezza e modernità c’è in questo discorso! Voi non portate una preoccupazione, un peso, una macchina da custodire bene perché potrebbe essere rubata; ma semplicemente una grazia, chi vi accoglie deve sentire che l’ospite non crea obblighi se non quello di aggiungere un piatto e non deve turbare per nulla la serena atmosfera dell’incontro. Deve essere pura gioia in chi accoglie e in chi è accolto.
E per questo bisogna che il messaggero venuto da lontano sia pace e porti questo grande dono che la volgare società consumista ha fatto scomparire, la vera ospitalità. Come vorrei condividere con tutti i miei amici questo dono dello Spirito dell’essere ospite, specialmente con i preti spesso invitati in case borghesi che li considerano piuttosto che portatori di pace delle buone forchette. Capisco che non è facile pensare l’ospitalità oggi come doveva esserlo ai tempi di Gesù. Ne ho avuto qualche esperienza nell’anno di deserto quando ero invitato sotto la tenda di nomadi che conservano riti che vengono da tempi molto lontani. E’ molto interessante che l’ospitalità ritorni al pensiero in questa opera come sistema filosofico. Derrida nel discorso pronunziato sul defunto Emmanuel Levinas definisce l’opera ‘Totalità e Infinito’ come “un immenso trattato sull’ospitalità”. E dialogando con voi vi racconto che una delle mattine in cui leggevo “L’essere in questione” di Sandro Tarter ho avuto una intuizione, non oso definirla visione perché confesso che non ho avuto mai visioni di immagini, ma sono convinto che nel silenzio della mente, quando otteniamo il silenzio interiore, ho visto il tempo lontano dei miei anni giovanili, vorrei dire che ho captato in un momento il senso dell’epoca. Ho visto con gioia questo cambio che porterà a un rinnovamento essenziale la società del futuro. Ho ripensato a un discorso pronunziato a Bologna dal poeta Giovanni Pascoli in occasione della guerra di Libia. Non ho con me il testo ma ricordo perfettamente alcune espressioni salienti, per averlo letto parecchie volte. Mi pare che la data del discorso coincida col mio anno di nascita, 1912. Il discorso appoggiava con entusiasmo l’invasione della Libia compiuta dall’esercito italiano la grande proletaria si è mossa. Il discorso affermava il diritto dell’Italia di entrare nella competizione colonialista di tutti i paesi d’Europa, perché la povertà aveva obbligato interi paesi di cittadini italiani ad emigrare in paesi ricchi, dove erano la manodopera mal pagata, sfruttata e vilipesa. Perché sappiamo che gli italiani erano i primi ad essere incolpati di furti, di stupri e di quanto poteva avvenire di delittuoso nei paesi dove erano approdati. L’elogio che il poeta faceva della decisione di invadere quella colonia non poggiava solo sul fatto che finalmente gli italiani avrebbero cessato di essere la riserva per i lavori più umili, schivati da quelli che avevano raggiunto un buon livello economico e quindi per questo solo fatto erano diventate persone rispettabili. Nel suo discorso il poeta “socialista” pensava questa invasione come un ritorno. Prima di voi lì c’è stata Roma con le sue legioni. E ricordo uno squarcio brillante, forse un po’ retorico ma chi non cade nella retorica scrivendo? Guardate in alto ci sono anche le aquile, e alludeva ai rumorosi aeroplani da guerra. Dunque in questo suolo dove voi poveri negri, vestiti di stracci, trascinate la vostra povera esistenza, un tempo hanno affondato gli artigli le aquile romane. Quindi è nostro diritto riprenderli. Si era appena a dieci anni dalla marcia su Roma e per più di venti anni la storia di questa grandezza imperiale diventò il piatto servito a pranzo e a cena di noi scolaretti elementari fino all’uscita dall’università. Poteva offrirci un antidoto solo un certo socialismo umanitario e universalistico che circolava nelle famiglie che coraggiosamente si esponevano alla probabilità di persecuzioni. Anche l’universalismo cattolico romano sarebbe stato facilmente addomesticato o meglio allineato al nuovo universalismo fascista . Da Roma il Duce tuonava: “presto il mondo sarà fascista o fascistizzato”, o con le buone o con le armi.
Nel libro di Tarter trovo ripreso un logos, una idea che costituisce il centro del pensiero levinassiano: la presunta innocenza della vita naturale, del mio trovarmi qui come la pianta nella sua terra, viene turbata dal tarlo profetico che indica la sua stessa quiete come usurpazione o ignominia. “Il mio essere al mondo o il mio posto al sole, la mia casa non sono forse stati usurpazione di luoghi che appartengono all’altro uomo da me già oppresso, affamato ed espulso in un terzo mondo? Non sono forse stati un respingere un escludere, un esiliare un uccidere? Il mio posto al sole – come diceva Pascal – è l’immagine dell’usurpazione di tutta la terre”.
Vorrei che i giovani particolarmente vedessero il capovolgimento che sta avvenendo nell’occidente in questo momento: non più torno alla terra che è mia o più cinicamente vengo per civilizzare voi che siete nella barbarie e intanto prendo quello che voglio dichiarando mia questa terra per assicurarmi un tipo di vita più sicuro più comodo. O cristianamente vengo per salvare le vostre anime destinate all’inferno per assicurarvi la felicità eterna. Sarebbe ingiusto affermare che tanti missionari che hanno fatto dono della loro vita per portare la luce del vangelo siano entrati in questo piano di rapina. Ma possiamo lamentare che siano stati pochi, troppo pochi coloro che hanno chiaramente separato la causa del vangelo dalla ragione del più forte che motivava i buoni cristiani a occupare terre abitate da altri. Il pensiero occidentale si sta staccando dall’Io orgoglioso, superbo fondato sull’affermazione costituente penso dunque sono, che staccava l’io dalla terra, dagli altri e quindi da ogni responsabilità e da ogni etica: perché può esserci un’etica se non a partire dalle relazioni? può sorgere un Io responsabile se non si affronta la domanda fondante: responsabile di chi? di che cosa? a chi devo rispondere? Vengono allo scoperto le basi di una cultura perennemente in guerra, perché anche la competizione economica è guerra; si stanno pazientemente gettando le basi di una società pacifica. Il grido di pace che ha attraversato l’occidente da punta a punta ha destato le sentinelle. Il famoso cambio culturale parte dal mettere in questione l’essere, il soggetto. Questo soggetto si fonda sul potere o sulla compassione, sull’accogliere o sull’usurpare, sul dono di sé o sulla eliminazione dell’altro? Sono domande ineludibili e urgenti che accelerano la fine dell’occidente usurpatore. Il Duce arruolava i giovani per riconquistare la terra che è nostra, per sempre nostra e suscitava in noi il desiderio di essere degli eroi. Oggi il volto marcato dai segni delle violenze subite ci viene incontro e ci assale con l’arma di quel silenzio che tutto scombina: hai deciso di continuare ad ucciderci? E ci fa scoprire stranieri in casa nostra, usurpatori anche se non abbiamo mai maneggiato un’arma. Accusa la nostra civiltà, la nostra religione, tutte le celebrate conquiste della nostra razionalità.
Non dobbiamo caricare la gioventù della cattiva coscienza dell’occidente; ma piuttosto affidarle il valore responsabilità che affiora in questa nuova visione del soggetto come alterità. Formare il giovane alla responsabilità è raggiungere la radice di una guerra possibile e credo che la missione dei pensatori oggi sia quella di aprire tutti i sensi racchiusi nella parola responsabilità.
Riandando al mio passato ripenso alla fatica di riscattare il mio io dagli ideali di eroismo, di lotta, di narcisismo patriottico in cui entrava anche lo stimolo a raggiungere un livello di sviluppo intellettuale che mi facesse un cittadino utile, un servitore efficace della patria. Ho avuto dei compagni di liceo che definirei non comuni e, invitato più volte a parlare del compagno Carlo (Del Bianco) morto tragicamente inseguito dai fascisti, ricordo le discussioni infinite per scoprire il senso vero del vivere, riscattandolo dal falso che ci avevano trasmesso alcuni educatori. Altri avevano piuttosto seminato in noi quell’inquietudine che animava i nostri incontri .Abbiamo preso cammini diversi ma credo che tutti siamo stati guidati in ogni scelta dalla certezza che la vita non è vita se non si riconosce per una sua qualità. E dichiaro di aver superato quel senso di colpa che la mia generazione ha provato allo scoppiare della guerra e soprattutto all’orrore dell’olocausto, pensando che la pedagogia fascista ha stimolato in noi la ricerca del vivere con responsabilità.
Mi chiedo spesso se era più facile per i giovani della mia generazione liberare questa responsabilità da utopie di grandezza, di eroismo alimentate dall’odio del nemico o alla gioventù attuale riscattarla da questo campo di sterminio di ogni ideale, da quella way of life che consiglia di aprire la giornata con i vari menù suggeriti dalla tv e di chiuderla con un gruppo di amici occasionali, eliminando con quattro o cinque spari qualcuno quando diventa insopportabile. Oggi chi veramente ama la gioventù deve trasmettere, più con la vita che con le parole, che l’autentico star bene al mondo in qualunque circostanza, è legato alla ricerca di una buona qualità di vita e questa buona qualità è chiusa nel valore responsabilità. E i primi a vivere questo valore devono essere gli operai del pensiero.