Il lievitare del “desiderio”.
Un giorno ricevetti
la telefonata di un caro amico che aveva assoluto bisogno di parlarmi
urgentemente del proprio figlio. Era disperato: aveva scoperto, lui uomo di
sinistra, che il proprio figlio portava nel portafoglio la fotografia di
Berlusconi. “Complimenti!” – fu la mia risposta – “Hai inconsapevolmente
permesso a tuo figlio di essere figlio”. Naturalmente faticai sette camicie per
fargli capire quanto sia stato importante permettere al figlio di pensarsi
oltre e diverso da lui padre. Quando allora una persona diventa veramente
figlio? Paradossalmente quando smette di essere unicamente figlio e raggiunge
la propria unicità nel divenire uomo o donna. Quando si smette di essere
unicamente figli? Quando si riescono a superare tutte le rivendicazioni e i bisogni
di essere riconosciuti. Quando ci si riesce a liberare dai desideri dei
genitori su di sé. Questi desideri sono gli ideali che loro non sono riusciti a
realizzare e che proiettano sul figlio affinché sia lui a raggiungerli. Ci sono
genitori operai che vogliono che il figlio prenda la laurea: ” Arriva più
lontano di me!”. Ci sono figli di grandi imprenditori che hanno ereditato
una fortuna e che inesorabilmente finiscono per distruggerla. Figli di padri
che hanno grandi personalità – attori, scrittori, uomini politici –, incapaci
di separarsi dalle identificazioni con i loro “grandi padri” e restano legati
alla loro immagine, qualche volta oppressi e schiacciati per tutta la
vita.
Le radici non devono bloccare al passato, è necessario un duplice movimento: il
padre riconosce e fa fiducia al figlio, il figlio alimenta e fonda la sua
sicurezza nel poter andare oltre e verso il proprio desiderio. Riporto a questo
proposito un passo del libro di Massimo Recalcati, Il complesso di
Telemaco, che ben esprime questi concetti. “Che cos’è fede? É il dono
più profondo della genitorialità. É credere senza riserve e senza interesse nel
desiderio dei propri figli (…). È credere con fiducia nelle visioni, nei
progetti, nella forza dei propri figli. Se il desiderio del figlio è visto con
angoscia e sospetto non viene nutrito efficacemente”. Ad Abramo Dio disse:
“Parti, va verso di te, per divenire te stesso”: non significa “parti e fa
quello che vuoi”. Non è nell’ordine del capriccio, della ripetizione del vuoto,
passando da oggetto ad oggetto (un telefonino con un altro più sofisticato,
un iPod con l’ultimo modello) tentando così di riempire il
vuoto della vera identità, che ancora non c’è e si fonda proprio su quella
mancanza di essere che è il posto dell’ unicità del proprio desiderio.
Si diventa pienamente umani solo quando si incontrano dei padri che stanno sul
proprio desiderio e col loro essere desideranti testimoniano la possibilità di
divenirlo. Padri nella loro funzione, che non necessariamente sono il padre o la
madre che hanno generato alla vita biologica. “Un buon incontro”
diceva Lacan, che apre verso quel va per te, va verso ti te, va verso la tua
felicità, che fa uscire Abramo dalla terra di suo padre verso la terra
promessa. Una promessa che non è certezza, se non che “io sarò con
te”. “L’ eredità dunque non è mai un eredità di sangue, (…) ciò che
si eredità è sempre una testimonianza. Non esistono testimoni di professione,
come non esiste una pedagogia della testimonianza. Non risponde ad un piano,
non dipende da una tecnica. La forza della testimonianza è nel suo accadere lá
dove non l’avresti mai aspettata. Non è un’ intenzione, ma un evento che
possiamo ricostruire davvero solo retroattivamente. Potrò dire cosa è stata per
me una testimonianza solo quando sarò oltre il tempo in cui l’ho vissuta”.
don Mario De Maio
(da “Oreundici” di gennaio 2014)