Un impiegato delle ferrovie era entrato in un vagone frigorifero del treno per pulirlo e la porta si era chiusa dietro di lui. Ed eccolo chiuso nel vagone frigorifero. Essendo venerdì sera, è rimasto nel vagone per tutto il fine settimana ed è morto logicamente di freddo. Soltanto che la refrigerazione non era stata inserita e nel vagone c’erano 18°! All’autopsia il corpo mostrava tutti i sintomi della morte per assideramento. Quell’uomo è dunque morto per la rappresentazione che aveva del freddo. È morto per la sua immaginazione! È terribilmente strano! Viviamo e moriamo delle nostre immagini, non della realtà. La realtà non può niente contro di noi. La realtà non ha potere contro di noi. Solo la rappresentazione che ne abbiamo ci uccide o ci fa vivere. Immaginate allora il contrario, immaginate un impiegato delle ferrovie chiuso in un vagone frigorifero collegato, ma che sopravvive visualizzando il sole per tutto il fine settimana. Anche questo è possibile.
Questo racconto è narrato da Cristiane Singer nel suo libro Del buon uso delle crisi (Servitium, 2006). Mi pare che esemplifica molto bene il problema che riguarda il rapporto tra la paura e l’espressione della parte più profonda di noi stessi che chiamiamo Desiderio. La vita che ci è affidata e che possediamo è qualcosa a cui è difficile collegarsi, eppure è una realtà che sperimentiamo. Il nostro respiro, il battito del nostro cuore, i nostri pensieri, le emozioni, la coscienza che dentro di noi c’è una forza estremamente potente e insopprimibile è un dato di fatto che ogni momento possiamo sperimentare. La qualità della vita che conduciamo è l’indicatore di quanto noi riusciamo a disporne liberamente e a viverla. La qualità della nostra vita dipende molto dalla rappresentazione che noi ce ne facciamo e come quell’uomo possiamo anche noi morire per le immagini che portiamo dentro. Ciò che ha un grande potere su di noi è la rappresentazione che della nostra vita ci facciamo minuto per minuto. Molte volte viviamo e moriamo in relazione alle nostre immagini, ai fantasmi che ci abitano, più che in relazione alla realtà e al nostro Desiderio. Siamo schiacciati o subiamo inconsapevolmente meccanismi che generano paura e inibizione legate a esperienze sedimentate nel nostro passato che orientano i nostri comportamenti e il nostro modo di guardare e valutare le cose che ci capitano.
Penso alla domanda che potete pormi: che cosa possiamo fare quando ci sentiamo imprigionati in un immaginario di negatività e di morte?
Nell’introduzione a questo Quaderno ho accennato al meccanismo dell’alienazione, cioè quel meccanismo che ci porta lontano da noi stessi. Se ci guardiamo dentro ci accorgiamo che questo meccanismo ci abita e che in un modo o nell’altro siamo un po’ tutti alienati negli altri e in particolare negli Altri significativi della nostra vita. La preoccupazione del giudizio, della valutazione che gli altri possono fare di noi orienta spesse volte i nostri passi. Nel fondo del nostro animo tutta la nostra vita è stata organizzata a soddisfare o rispondere al desiderio dell’Altro. Se noi ci fermiamo a riflettere, dovremmo tentare di individuare chi è questo Altro che, nel bene e nel male, condiziona la nostra esistenza.
Tutte queste dinamiche possono influenzare anche le nostre esperienze religiose e le nostre rappresentazioni o immagini di Dio. Che ci portiamo dentro.
Mi viene in mente la parabola del padre buono. Il figlio prodigo deve uscire di casa, liberarsi dalle rappresentazioni e immagini che lo abitano, per ritornare e trovare un rapporto nuovo con il padre. La sua nuova modalità di vivere non dice nulla e infastidisce l’altro fratello che ha continuato nella vecchia relazione con il padre. Lui non riesce a cogliere la festa della nuova vita che si esprime nel fratello, nel padre e persino nei servitori che appartengono alla sua famiglia.
Quali sono le immagini di Dio che ci abitano? Credo sia difficile pensare che Dio abbia programmato sul suo computer la vita di ogni uomo e da tutte le Scritture risulta evidente che Dio ha il solo Desiderio che l’uomo viva pienamente la sua vita e sia felice. Lo splendido concetto del fare la volontà di Dio deve ritrovare un significato nuovo che ci aiuti a vivere la quotidianità. Come possiamo incontrare Dio e la sua volontà se non nella vita stessa che lui ha affidato a ognuno di noi? Da sempre l’uomo cerca il senso della vita e ogni buon filosofo e teologo ha una sua teoria al proposito. Io credo che semplicemente, con molto impegno, dobbiamo uscire dai labirinti mentali che fanno buon gioco alle nostre paure. La spiritualità ci deve portare a riscoprire il piacere e la gioia del semplicemente vivere.
Se noi ci appassioniamo a ciò che ogni momento la vita ci riserva e prendiamo gusto alle piccole e grandi cose che quotidianamente accadono, questa passione del vivere trova da sé il significato da dare a fatti immancabilmente connessi con la vita che sono la malattia, la morte, la perdita delle persone e delle cose a noi care. Il riscoprire le finezze legate alla consapevolezza che tutta la ricchezza della vita e tutta la ricchezza del bene ci è stata donata completamente e a piene mani da questo padre che chiamiamo Dio, ci deve orientare nel nostro unico impegno che è quello di accoglierla, accrescerla e moltiplicarla nella nostra esperienza.
Dobbiamo allora imparare a coniugare il concetto di alienazione con un altro termine: separazione. Imparare a separarci quotidianamente dalle nostre vecchie abitudini, dall’organizzazione nevrotica del nostro vivere, separarci dalle immagini sicure che oramai dovrebbero essere tramontate nel nostro vissuto.
Separarci per sperimentare forme nuove di amare. Amare non per possedere sicurezza e protezione, amare non per possedere soddisfazione ai nostri bisogni. I diversi amori che sperimentiamo e che rischiano di ripetere vecchie modalità di relazioni sono le preziose occasioni che ci sono offerte per liberarci e insegnarci la forma fondamentale di nutrimento del vivere che è l’Amore.
Le nostre esperienze affettive sono l’occasione non per avere nuovi possessi ma per crescere ogni giorno nella difficile ma indispensabile dimensione del vivere e dell’amare.
Don Mario De Maio
(da “Oreundici” di settembre 2009)