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Caro don Mario…

Caro don Mario, per una volta siamo noi a scriverti, ed è una cosa che mi appare tanto strana.
In segreteria abbiamo appeso il primo numero della rivista datato 1989: un foglio ciclostilato che stampavi nella scuola dove insegnavi religione. Mi è venuta una sensazione di vertigine, nel momento in cui ho preso consapevolezza che il Cari amici ci accompagna con continuità da 35 anni! Il Cari amici era innanzitutto il tuo fedele appuntamento mensile con ciascuno di noi. In tanti ne avevamo colto la preziosità. Arrivava il Quaderno ed era la prima cosa che andavamo a leggere: nutrimento ricco che per quel giorno poteva bastare.
Ci ricordavi spesso che Ore Undici è un gruppo di amici che ha iniziato ad incontrarsi la domenica intorno alla Celebrazione dell’Eucarestia. Allora celebravi a Frascati, dove ti recavi il fine settimana per stare con i tuoi genitori e la tua famiglia d’origine.
Celebravi la domenica, un appuntamento a cui non mancavi mai, anche in questi ultimi mesi dove parlare e leggere ti era diventato impegnativo e ne smaltivi la fatica solo riposando il lunedì.
La tua ultima Messa l’hai vissuta due giorni prima di lasciarci. Ci avevi sorpresi nella penultima omelia quando ci hai detto che continuerai ogni domenica a celebrarla con noi dal Paradiso!
La casa di Civitella l’avevi tanto desiderata, perché fosse un luogo concreto per ritrovarci, dove poter vivere insieme, nel nostro piccolo quotidiano, l’accoglienza, l’amicizia, la fraternità. Ognuno però con la propria casa, libertà, indipendenza. Dicevi ridendo: «non fa bene a nessuno ritrovarsi troppo sulla stessa mattonella!».
Con l’arrivo di Juan e Alberto, i primi due ragazzi del Salvador e la presenza di Antonio e Maria, siamo cresciuti insieme nella consapevolezza di poter essere davvero una famiglia. Una famiglia che diventa grande la domenica, o negli incontri di gruppo, quando per preparare la tavola arriva la domanda di rito: «allora quanti siamo oggi?».
Da Natale dell’anno scorso eri diventato silenzioso. Abbiamo fatto fatica ad abituarci a non sentire più le tue riflessioni, mai banali e spesso molto personali, la tua gioiosità, il tuo modo giocherellone e scanzonato che emergeva quando ti sentivi a tuo agio tra noi.
Partecipai per la prima volta al convegno di Ore Undici nell’agosto del 1994. C’era Arturo che la mattina tuonava con forza nelle meditazioni e poi don Carlo che con le sue riflessioni intense, il suo linguaggio teologico a volte complesso, mi pareva ci precedesse su sentieri di montagna.
E c’eravamo noi, dietro a loro col fiatone, nella fatica di tenere il passo.
Ricordo di essermi più volte domandata dove fossi tu, che salivi sul palco solo per presentare i relatori e poi sparivi in mezzo alla gente e potevi essere seduto in sala insieme a tutti noi.
Una mattina ti vidi aprire le finestre per arieggiare il salone, faceva caldo, eravamo tanti e l’incontro non era ancora finito.
Mi ci vollero mesi per intuire che dietro le parvenze di un uomo semplice, a modo suo timido e riservato, che non attirava l’attenzione e lo sguardo, c’era una presenza fine, attenta, delicata che non perdeva i minimi particolari di ciò che avveniva, anzi spesso ne coglieva alcuni per me invisibili. Solo negli anni ho imparato a capirti standoti vicino.
Vivevi la spiritualità dei Piccoli fratelli di Charles de Foucauld, da cui eri profondamente affascinato, ma senza un’appartenenza istituzionale. Te ne eri nutrito frequentando Arturo, ma anche il loro fondatore, René Voillaume, nella loro fraternità romana, dove ti accolsero giovane sacerdote a Roma, negli anni di studio della psicologia e della psicoanalisi.
L’Amore per la Vita, quella vera, fatta di fatica, d’inquietudine, di domande che non trovano facili soluzioni, ti avevano spinto a non accontentarti delle risposte della teologia e della pastorale. Avevi sentito la necessità di correre il rischio di percorrere strade inedite. In questo sei stato vero fratello nello Spirito di Arturo, don Carlo, padre Mongillo, padre Balducci, Turoldo… amici non d’élite, ma per te leali compagni di viaggio.
Ordinato sacerdote nel 1963 avevi avuto come loro una formazione preconciliare, ma del Concilio Vaticano II siete stati insieme fedeli testimoni. Fedeli alle intuizioni, alle direttive, all’immagine di Chiesa sinodale che proponeva, alle immagini del Dio di tenerezza e misericordia che prospettava.
L’elezione di papa Francesco fu per te motivo di grande consolazione. «Finalmente un pastore che cammina davanti a noi!». E stupito andavi quasi ogni giorno a vedere: «cosa avrà combinato di nuovo oggi?».
L’ultimo incontro pubblico che hai avuto è stato a Civita Castellana, con i giovani sacerdoti della Diocesi in cui viviamo. Uno di loro ti chiese a bruciapelo: «Don Mario qual è per te la difficoltà più grande che può incontrare un sacerdote?». Sei stato a lungo in silenzio, tanto che pensammo non avessi colto la domanda o la mancanza di respiro t’impedisse di parlare.
«La solitudine», fu la risposta. Motivata nel modo che ti avevo tante volte sentito dire. Citavi il tuo amato padre Cosentino, sacerdote siciliano che ti accompagnò nella tua giovinezza. «Ricordatevi che per noi sacerdoti, il prossimo più prossimo sono i nostri confratelli. Amati, non con le parole, proclamando la fraternità in modo ideale, ma nella concretezza dei gesti quotidiani, con una presenza discreta e senza giudizio».
Quanti sacerdoti, religiosi, seminaristi, religiose e novizie sono passati nel tuo studio di psicoanalista?
In quanti seminari e case di formazione sei andato per dare inizio a processi di crescita umana e spirituale! Ricordo che affermavi sempre con forza e convinzione che le due dimensioni sono la stessa cosa, come i lati di un foglio di carta.
Non ho mai sentito da te una parola di giudizio su nessuno, in un grande rispetto per la fatica di vivere di ciascuno. Nel tempo ho imparato che una delle cose più preziose che mi insegnavi con gli atteggiamenti, con gesti, con la tua instancabile creatività, era la fedeltà alle persone. Tutte, indistintamente, senza paura neanche degli aspetti più irrazionali e incomprensibili, quelli che nascono dal dolore che la mente può sviluppare a difesa del troppo, grande dolore incontrato. «Siamo chiamati a vivere le finezze dell’Amore», mi dicevi.
E così ti sei inventato un’associazione dove per entrare, restare o uscire non era necessario avere tessere identitarie o etichette morali di nessun genere. Antidoto potente ad ogni forma di segregazione che l’amato psicoanalista Jacques Lacan scoprimmo indicare come un disagio crescente e devastante della nostra civiltà contemporanea.
Ore Undici, un ponte tra dentro e fuori la Chiesa. Nessuna guardia svizzera a segnarne il confine.
La tua vulcanica creatività a volte non ci dava respiro. In alcuni giorni ne sfornavi in modo continuo. Così arrivò anche l’impegno in Brasile: prima le Case Lar, poi Madre Terra. Abbiamo perso il numero concreto dei viaggi, per essere presenti a Foz, nella sfida di trovare risposte in un continente e una cultura che non era la nostra. Alcuni degli amici brasiliani e dei ragazzi che amasti laggiù, ti hanno ancora scritto negli ultimi giorni.
La settimana prima di lasciarci, mi avevi chiesto: «Guardami i voli per Foz, appena mi riprendo vado giù». Lo sapevi che non era così e al mio sguardo incredulo aggiunsi sorridendo: «in business, però!». Era il tuo modo leggero e sornione di sostenerti nel guardare avanti.
Avevi un dono rarissimo e prezioso, la capacità di tradurre il linguaggio teologico ed ecclesiale in parole legate alla Vita concreta, quelle che tutti potevano capire: credenti, non credenti, diversamente credenti. «Lo splendor varietatis che forma Ore Undici», dicevi tu.
Nella tua libreria ci sono due ripiani di libri esclusivamente riservati alla figura di Gesù. L’Amore per lui, per la sua umanità aveva per te un fascino senza limiti.
Nell’ultimo anno, non c’era domenica in cui non ti domandavi cosa avrebbe fatto se fosse stato presente lì con noi. Poi come una goccia d’acqua che cade senza smettere mai, dicevi: «Ricordatevi che il Regno di Dio è il sogno di Gesù: fare del mondo un mondo di amici».
Ci inventammo anche gli esercizi spirituali in fraternità. Una settimana estiva a Camaldoli, portata avanti per più di 20 anni. Il gruppo volle chiamarsi “Fede in ricerca”.
Ci confrontammo a lungo sul valore della propria unicità, sull’importanza di camminare verso il semplicemente vivere, nel dialogo sull’Amore, il difficile Amore lo chiamavi tu. Elaborammo insieme una rilettura dei tre voti monastici, ritradotti in modo esistenziale e per tutti. Contrario da sempre al celibato obbligatorio per i sacerdoti, restavi pienamente convinto del valore della castità, come qualità nelle relazioni, che non deve andare persa nel cammino della Chiesa, unita alla scelta della povertà come essenzialità nel vivere e dell’obbedienza come fedeltà alla Vita.
Di fronte alle posizioni difficili da capire di alcuni responsabili di comunità italiane, una volta abbiamo riflettuto insieme su un altro pensiero di Lacan. Lui affermava che chi fondava delle istituzioni, potesse anche esserne spinto dal trovare risposte equilibranti alle proprie problematiche e personali fragilità. Eri rimasto in silenzio, pensieroso.
E così, in silenzio ci hai fatto il dono più grande, che ho compreso solo la mattina dopo la tua morte, quando un’amica mi chiese: «Cara Agnese, quali disposizioni ha lasciato Mario per Ore Undici?».
Stupìta, mi sono sentita risponderle: «Nessuna!».
Mai nessuna domanda sul futuro, mai nessun desiderio espresso sull’argomento, nessuna aspettativa.
Solo il dono di una fiducia piena e della libertà di assumerne la responsabilità, per come ci sentiremo di fare. Aveva ben pensato le parole di Lacan e la sua risposta ci ha sciolto da ogni possibile impronta e vincolo.
Caro Mario, grazie, grazie, grazie!
Era il tuo ritornello ogni giorno, ad ogni più piccolo gesto di cura che potevamo rivolgerti.
Oggi noi lo diciamo a te.
Ci vorrà un po’, un po’ tanto credo, per elaborare il lutto della tua assenza fisica.
Ci daremo tutto il tempo per piangere, per accoglierne l’immenso dolore.
Piano piano smetteremo di camminare all’indietro e nel voltarci guarderemo con fiducia l’inedito che la Vita ci chiede di accogliere.
Ci hai dato le radici e le ali.
La tua Presenza, sorridente, attenta e premurosa già ci accompagna.
Oggi viviamo ancora nella scia della serenità con cui hai vissuto consapevole fino all’ultimo.
Il cuore è traboccante di gratitudine, per il dono grande di averti conosciuto e aver potuto vivere con te, un lungo pezzo della nostra vita.

Agnese, noi di Civitella e i tuoi amici di Ore Undici.