Nella sua rubrica domenicale sul Secolo XIX , rifacendosi a un caso di gravissimo sfruttamento di lavoratori pakistani, in un’azienda grafica veneta, Maurizio Maggiani si è appellato all’autorità morale del papa e ha chiesto: «val la pena di produrre belle e sagge opere se per farlo abbiamo bisogno del lavoro degli schiavi?».
il pontefice gli ha risposto con una lettera personale.
Gentile Signor Maggiani, ho letto la sua lettera pubblicata il 1 ° agosto. Con coraggio, senza temere di provare vergogna, ha voluto commentare la notizia che tanti avrebbero taciuto: i suoi libri e molti altri sono stampati sfruttando il lavoro schiavizzante di diversi cittadini pakistani. Così ha informato me e i lettori di questo paradosso e ha posto una domanda: «vale la pena produrre la bellezza grazie agli schiavi?».
Sono rimasto colpito dalle sue parole. Lei non pone una domanda oziosa, perché in gioco c’è la dignità delle persone, quella dignità che oggi viene troppo spesso e facilmente calpestata con il «lavoro schiavo», nel silenzio complice e assordante di molti. Lo avevamo visto durante il lockdown, quando tanti di noi hanno scoperto che dietro il cibo che continuava ad arrivare sulle nostre tavole c’erano centinaia di migliaia di braccianti privi di diritti: invisibili e ultimi benché primi! gradini di una filiera che per procurare cibo privava molti del pane di un lavoro degno.
La questione che lei pone è forse ancora più stridente: persino la letteratura, pane delle anime, espressione che eleva lo spirito umano, è ferita dalla voracità di uno sfruttamento che agisce nell’ombra, cancellando volti e nomi. Ebbene, credo che pubblicare scritti belli ed edificanti creando ingiustizie sia un fatto di per sé ingiusto. E per un cristiano ogni forma di sfruttamento è peccato.
Ora, mi domando, che cosa posso fare io, che cosa possiamo fare noi? Rinunciare alla bellezza sarebbe una ritirata a sua volta ingiusta, un’omissione di bene. La penna, però, o la tastiera del computer, ci offrono un’altra possibilità: quella di denunciare, di scrivere cose anche scomode per scuotere dall’indifferenza, per stimolare le coscienze, inquietandole perché non si lascino anestetizzare dal «non mi interessa, non è affare mio, cosa ci posso fare se il mondo va così?». Per dare voce a chi non ha voce e levare la voce a favore di chi viene messo a tacere…
Amo Dostoevskij non solo per la sua lettura profonda dell’animo umano e per il suo senso religioso, ma perché scelse di raccontare vite povere, «umiliate e offese». Sono tanti gli umiliati e gli offesi di oggi, ma chi dà a loro voce? Chi li rende protagonisti, mentre soldi e interessi spadroneggiano? La cultura non si lasci soggiogare dal mercato. Lei racconta, come ha scritto, «le storie dei silenti, degli ultimi e degli umili». Apprezzo questo e pure quello che ha scritto il 1 °agosto, perché non ha calcolato i suoi ritorni di immagine, ma ha messo nero su bianco la voce scomoda della coscienza. Di questo abbiamo bisogno, di una denuncia che non attacchi le persone, ma porti alla luce le manovre oscure che in nome del dio denaro soffocano la dignità dell’essere umano. È importante denunciare i meccanismi di morte, le «strutture di peccato».
Ma denunciare non basta. Siamo chiamati anche al coraggio di rinunciare. Non alla letteratura e alla cultura, ma ad abitudini e vantaggi che, oggi dove tutto è collegato, scopriamo, per i meccanismi perversi dello sfruttamento, danneggiare la dignità di nostri fratelli e sorelle. È un segno potente rinunciare a posizioni e comodità per fare spazio a chi non ha spazio. Dire un no per un sì più grande. Per testimoniare che un’economia diversa, a misura d’uomo, è possibile. Questi sono i pensieri che mi vengono dal cuore. Le sono fraternamente grato per aver attirato la mia attenzione su un grave problema dei nostri giorni, grazie per la sua denuncia costruttiva! E grazie a quanti fanno rinunce buone e obiezione di coscienza per promuovere la dignità umana…
Fraternamente, Francesco