di Eraldo Affinati in “Avvenire” del 9 dicembre 2020
La paternità non s’identifica soltanto con quella biologica. Si tratta di una condizione da conquistare: in questa chiave è sempre putativa. Ecco la ragione per cui, a mio avviso, la lettera apostolica del Papa, Patris corde, in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa, favorisce una riflessione di carattere universale, soprattutto nel drammatico momento storico che stiamo vivendo.
Per superare la solitudine a cui ci costringe la pandemia dobbiamo costruire una nuova prossimità.
Altrimenti la crisi degli adulti si trasmetterà anche ai più giovani che per reazione potrebbero commettere atti inconsulti. Se gli adolescenti non trovano appoggi, la società smarrisce i suoi puntelli. Evitare di compiere la fatica necessaria per diventare padri produce un danno a noi stessi e a chi ci sta vicino. Saper rinunciare a ciò che potremmo realizzare in nome di ciò che decidiamo di essere è il percorso della maturità, oltre all’essenza inconfondibile del cristianesimo.
Certo per un credente il richiamo all’umile falegname di Nazareth, luminosamente tratteggiato nei Vangeli di Matteo e Luca, assume un significato speciale. L’esistenza oscura di quest’uomo ordinario colpito da una verità trascendente, pronto a mettere da parte la propria umana incertezza per ascoltare in sogno la voce degli angeli ubbidendo senza indugio ai loro comandi, rappresenta la radice stessa della fede, l’adesione non semplicemente legalistica a una chiamata superiore: come ci ricorda il Papa, il suo Fiat, di pari potenza rispetto a quello di Maria, è ben più che un reclinare il capo al cospetto di un evento incomprensibile come la gravidanza della promessa sposa: siamo di fronte all’anticipo incarnato del Padre nostro, la cui meditazione per almeno mezz’ora troviamo fra le condizioni previste per ottenere l’indulgenza proclamata ieri da papa Francesco.
Molte delle intuizioni presenti nel testo reso pubblico nella giornata dell’Immacolata, elaborate a partire dalla figura di san Giuseppe, possono costituire anche un breviario della vita giusta e felice: l’elogio delle seconde linee, il valore intrinseco del nascondimento rispetto alle luci fosforescenti della ribalta, la profonda dignità del lavoro come modo di partecipazione al ritmo comunitario, il dono prezioso del servizio che non chiede riscontro, simile a quello che stanno prestando in questi mesi medici e infermieri, il senso profondo che siamo chiamati ad attribuire all’accoglienza dei migranti.
Pensiamo all’indicazione del ‘coraggio creativo’ quale molla propulsiva della Santa Famiglia per risolvere tutti i problemi concreti del sofferto esilio egiziano: dove trovare da mangiare, dove andare a dormire, come fare a sopravvivere con un bambino piccolo. La stessa richiesta d’iniziativa originale spinge i poveri contemporanei a inventarsi un sistema per sbarcare il lunario.
Ma è forse nel settimo punto della lettera, intitolato ‘Padre nell’ombra’, che personalmente ho trovato maggiore ispirazione. «Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti»: questa affermazione vertiginosa, presente nel documento vaticano, oltre a rinnovare gli insegnamenti della tradizione, ci esorta a prendere posizione, aiutandoci a capire che il padre deve accettare la libertà del figlio, fino al punto di affrontare a testa alta la propria ‘inutilità’. Così avrà svolto il suo compito, sfuggendo alla tristezza e alla frustrazione. Ciò vale per ogni altra attività umana: bisogna passare dall’idea del ‘sacrificio di sé’ al ‘dono di sé’. Che non significa dimenticare chi siamo, bensì, al contrario, legittimare la nostra vera presenza in questo mondo. I figli non dovrebbero essere soltanto di chi li ha generati. Lo sapeva don Leonardo Murialdo, fondatore della Congregazione dei Giuseppini, quando accoglieva i ragazzini sbandati al collegio torinese degli Artigianelli. Dovremmo impararlo tutti noi.