di Michela Murgia in “la Repubblica” del 30 luglio 2021
A tirare il primo importante colpo alla narrazione dell’invincibilità dei campioni (e quindi a quella di chiunque) è stato Álvaro Morata, il bomber spagnolo, quando ai margini del campionato europeo, rivelando di essere andato vicino alla depressione, ha dichiarato di trovare grave il fatto che la salute mentale dei calciatori non riceva la stessa attenzione di quella fisica. Min Yoon-gi, rapper coreano della band più venduta al mondo, la condizione di fragilità mentale non solo negli anni non l’ha mai nascosta, ma l’ha dichiarata nei suoi testi per i BTS, facendone un tema cantabile per i fan di ogni nazione. L’atleta statunitense Simone Biles, che per potenza e coraggio è da anni una leggenda sui quadrati della ginnastica artistica mondiale, scegliendo di esporre il proprio stato di salute mentale davanti ai media e ai supporter ha fatto però un passaggio ulteriore, trasformando il ritiro di qualche giorno fa in un gesto politico. Mettendo il suo equilibrio sopra le esigenze della competizione ha detto «io valgo di più dei miei risultati» e il fatto che avesse la voce di chi è sorpresa dalle sue stesse parole ci rivela come per anni un sacco di gente debba averle fatto credere l’esatto opposto.
Non è difficile da credere, dato che le reazioni a questo ritiro così motivato, pur partendo dall’empatia, sono arrivate fino al pietismo e addirittura alla condanna da parte dei conservatori statunitensi, che nella scelta della ginnasta hanno letto la pavida resa di una generazione sconfitta, incapace di nerbo davanti agli ostacoli della vita. Secondo questa visione muscolare dello stare al mondo, l’esposizione della fragilità dei numeri uno nazionali toglierebbe capacità di eccellenza all’intera comunità, il cui morale uscirebbe infiacchito da tanto cattivo esempio.
La diffusa incomprensione del gesto di Biles, negli Usa e in qualche triste caso pure in Italia, deriva dalla confusione che si fa tra il concetto di debolezza e quello di vulnerabilità, parole troppo volentieri usate come sinonimi. Dal punto di vista etimologico, debole è letteralmente chi deve, chi non ha, chi manca di qualcosa; in assenza di altre specificazioni, quel dato mancante è proprio la forza. La debolezza è sempre da temere, perché è il deficit morale di chi strutturalmente non è in grado di fare o sostenere le proprie scelte, tantomeno quelle altrui. Delle persone deboli non ci si può fidare ed è una fortuna che, pur essendo molte, non siano comunque la totalità degli esseri umani.
La vulnerabilità, cioè la possibilità di subire una ferita, è invece la condizione naturale di ognun di noi e non nega la forza in nulla. Avere un tallone vulnerabile non ha mai fatto di Achille un debole, e anzi la vulnerabilità, quando è consapevole, è una parte essenziale della forza, perché regala doti preziose come il senso del proprio limite e la capacità di sapere quando fermarsi. Se mostrata con il nitore con cui lo ha fatto Simone Biles, la vulnerabilità diventa un atto di pedagogia comunitaria, perché guardare qualcun dichiarare di voler rispettare il suo limite educa a riconoscere i propri e a valutarsi a vicenda con una più giusta misura. Per questo, mentre la debolezza va riconosciuta per temerla, la vulnerabilità bisogna ricercarla per proteggerla, specialmente in chi esprime maggiore forza al servizio di obiettivi comuni.
Giù il cappello, dunque, davanti alla dichiarazione di vulnerabilità della ginnasta con mille vittorie, del calciatore dei record, della pop star in cima alle classifiche e di chiunque osi sfidare con la sua autenticità il falso mito dell’onnipotenza umana.
Dichiararsi vulnerabili è una colpa solo in un mondo di deboli.