di Massimo Giuliani in “Avvenire” del 13 giugno 2020
È piuttosto difficile oggi immaginare quel che avvenne nel giugno del 1960, sessant’anni fa, in via della Conciliazione a Roma. Un ottantatrenne ebreo francese, lo storico Jules Isaac, sta aspettando di avere un’udienza fissata da tempo con il papa, Giovanni XXIII, a sua volta ottuagenario, per dirgli… Per dirgli cosa? Quanta sofferenza ha causato agli ebrei nella storia l’accusa di deicidio?
Che nei vangeli l’odio antiebraico non c’è e che Gesù sembra piuttosto un ebreo fedele alla Torà?
Per raccontargli della moglie e della figlia, che pochi anni prima i nazisti avevano deportato e assassinato ad Auschwitz solo perché ebrei? Ma poi arriva una telefonata e l’udienza salta. Un incontro atteso da una vita sfumato all’ultimo momento, l’impossibilità di dire, di farsi ascoltare, di chiedere al capo della Chiesa Cattolica di fermare “l’insegnamento del disprezzo” verso il popolo ebraico.
Subito, l’amica Maria Vingiani corre in via della Conciliazione, lo prega di non ripartire per Parigi e di aspettare, andrà lei stessa in Vaticano per capire cosa è successo. Qualche giorno dopo, il 13 giugno, le porte di bronzo si approno e quell’incontro avviene. Il papa ascolta e il dossier che Jules Isaac aveva portato con sé finisce nelle mani giuste (quelle di Agostino Bea, biblista e cardinale di fiducia del papa). L’evento costituisce uno dei semi dai quale nascerà la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, che al punto IV cancella l’accusa di deicidio contro il popolo ebraico aprendo la strada a una profonda revisione del catechismo cattolico in materia di ebraismo. Già dal 1942 Isaac, che di professione era un docente di storia (radiato dalle scuole pubbliche con le leggi antisemite del governo di Vichy nel 1940), aveva iniziato a leggere le Scritture cristiane scoprendo che esiste una discrepanza tra la verità storica e il lascito della tradizione, tra fatti narrati nei testi e miti popolari.
Nel Carnet du lépreux scriveva: «Ho letto i vangeli, li ho scrutati onestamente e meticolosamente, per quel che riguarda Israele e la posizione di Gesù in rapporto a Israele, e sono arrivato alla conclusione che la tradizione ricevuta non quadra con il testo evangelico, che essa deborda da ogni parte. È questa tradizione, non i testi, l’origine primaria e permanente dell’antigiudaismo, la matrice potente e secolare sulla quale tutte le altre varietà di antisemitismo, anche le più divergenti, sono venute innestandosi ». Come arrivò a questo studio lo racconta Teresa Salzano: «Jules Isaac, da laico qual era, si era fatto esegeta, teologo, studioso appassionato della Bibbia, degli apocrifi e dell’apocalittica. Germaine Bouquet, insegnante di matematica, a quel tempo partigiana, negli anni della persecuzione lo nascose a casa sua e cercò di procurargli, tra le mille difficoltà della vita clandestina, i libri che il suo studio richiedeva. Egli viveva confinato in una casa di campagna nella regione del Clermont–Ferrand, da cui spesso doveva scappare per trovare nascondigli più sicuri. I volumi di cui aveva bisogno erano reperiti nei conventi delle vicinanze. E da quel momento lo scopo della sua vita divenne questo: far conoscere Gesù agli ebrei e Israele ai cristiani».
Questo studio diventerà nel dopoguerra uno dei testi fondamentali, per quanto pionieristico, del nuovo rapporto tra ebrei e cristiani, con il titolo Gesù e Israele (tradotto in italiano nel 1976). In chiusura del libro Isaac scrive: «A questo sforzo di rinnovamento e di purificazione [dell’interpretazione antiebraica delle Scritture cristiane], a questo severo esame di coscienza io invito i veri cristiani e anche i veri israeliti. È questa la lezione più importante che si sprigiona dalla meditazione di Auschwitz, dalla quale io non so distaccarmi, dalla quale nessun uomo di cuore dovrebbe astenersi». Nell’agosto del ‘47, nella cittadina svizzera di Seelisberg, un gruppo di pastori evangelici, di teologi cattolici e di ebrei impegnati raccoglieranno il messaggio del testo di Isaac, e sotto la sua regia trasformeranno i ventidue capitoli di Gesù e Israele nei dieci Punti di Seelisberg, che forniranno la road map del dialogo ebraico– cristiano per tutta la seconda parte del XX secolo.
Invero già nell’ottobre del 1949 Isaac venne a Roma e si recò a Castel Gandolfo, dove un amico lo spinge a incontrare Pio XII durante un’udienza pubblica. Ma fu un incontro in piedi, brevissimo, che non lasciò traccia. Le speranze si riaccesero con l’elezione del nuovo papa, al quale Isaac voleva consegnare personalmente il documento di Seelisberg. Si era all’alba dei lavori di un concilio che avrebbe dovuto rivoluzionare il tradizionale insegnamento e la secolare politica della Chiesa cattolica verso ebrei ed ebraismo. Papa Roncalli nel 1959 aveva fatto togliere dalla preghiera liturgica del Venerdì Santo l’aggettivo perfidis al sostantivo Judaeis, ormai totalmente spregiativo nell’italiano corrente. Grazie dunque a Maria Vingiani, Isaac riuscì a ottenere in fretta la nuova udienza e consegnare al papa il frutto dei suoi studi.
Loris Capovilla, segretario di Giovanni XXIII, ha scritto: «Il papa non si era mai immaginato che il Concilio dovesse occuparsi anche della questione ebraica e dell’antisemitismo. Tuttavia, a partire da quell’incontro, sostenne fermamente quest’idea». Si racconta, di quell’incontro così sofferto e importante, che si sia chiuso con questo scambio. Alla domanda di Isaac: “Posso dunque nutrire un po’ di speranza?”, il papa avrebbe risposto: “Voi avete diritto a molto più di una speranza!”. Il fatto che tale aneddoto sia entrato nella storia dei nuovi rapporti tra ebrei e cristiani è indice del valore simbolico di quell’incontro, che segna una svolta o meglio l’inizio di una fase nuova, che diede frutti impensati e impensabili solo fino a qualche anno prima.
Nel 1962, all’età di ottancinque anni, Jules Isaac diede alle stampe un ulteriore saggio sull’insegnamento del disprezzo, dove afferma: «La storia ha diritto di chiedere ragione alla teologia dell’uso che essa fa dei dati storici che le vengono forniti. Essa ha diritto di chiederle di non falsificarli o snaturandoli, e di restare onestamente fedele alla verità storica, nella misura in cui questa può essere onestamente colta e fissata. Che la teologia vada oltre la storia, sia; ma a condizione di rispettarla fin dall’inizio cioè di partire dalla verità storica. Questo non è soltanto il suo dovere, ma, se mi è consentito, una sua sacra obbligazione, perché, come ricorda il teologo protestante Karl Barth, la verità è da Dio».
Sta qui il senso più profondo dell’impegno di Jules Isaac dal giorno in cui, nel 1940, la legge francese lo aveva reso un fuorilegge fino alla sua morte avvenuta nel 1963, lo stesso anno della scomparsa di Roncalli. Egli non fu né mai pretese di essere un teologo o un biblista. Restò sempre uno storico, che però volle applicare con onestà il suo metodo di indagine a un ambito (quello degli scritti neotestamentari) la cui cattiva interpretazione tanto male e tanta sofferenza avevano causato a lui, alla sua famiglia morta ad Auschwitz e al popolo di Israele. Cercò la verità storica, riconobbe la distinzione tra fatti e loro lettura teologica, accettò l’esistenza di un’ermeneutica lontana dalla sua fede ma contribuì a smascherare l’ideologia e il mito che vi si erano incrostati diventando antigiudaismo religioso. In tal modo contribuì a mettere in moto quel processo, necessario e irreversibile, che avrebbe capovolto, quale atto di teshuvà, l’insegnamento del disprezzo trasformandolo nel suo opposto: un insegnamento di rispetto, anzi di stima verso gli ebrei e il popolo di Israele, verso la tradizione rabbinica e verso la fedeltà di quel popolo alla sua elezione, non in chiave propedeutica all’avvento del cristianesimo (come vorrebbe ancor oggi una cripto– teologia sostituzionista) ma in quanto risposta autonoma, e teologicamente valida di per sé, ai doni divini.