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Magda Hollander-Lafon «Uno sguardo può salvare un essere»

intervista a Magda Hollander-Lafon, a cura di Fanny Cheyrou in “La Croix” del 24 aprile 2021 (traduzione: www.finesettimana.org)

È stata deportata ad Auschwitz-Birkenau all’età di 16 anni. Nel suo ufficio luminoso, a Rennes, questa ex psicologa per bambini pubblica un manifesto struggente rivolto ai giovani. A 93 anni, Magda Hollander-Lafon è convinta che siamo collettivamente responsabili del mondo di domani. Allora, lei “fa la sua parte”.

I giovani le stanno a cuore da sempre, li ama, cresce con loro e li aiuta a crescere come può. Questa ex psicologa infantile usa solo parole semplici, è la sua filosofia. A 93 anni, si alza dalla poltrona per andare a cercare un documento esclamando: “Sa, quando si ringiovanisce, non ci si muove più tanto in fretta”. Poi torna col suo ultimo libro, appena pubblicato. Nella sua vita, ha incontrato migliaia di bambini e di adolescenti. Magda Hollander-Lafon è una delle ultime testimoni della Shoah, è stata deportata a Auschwitz-Birkenau. Da cinquant’anni si è assunta il compito di riparare la dignità dell’essere umano, non raccontando il suo passato come un “vecchio dinosauro”, ma dialogando sull’urgenza di guardare al domani. La saggezza che trasmette potrebbe sembrare banale, ma esce dalla sua bocca con rara semplicità. Madre di quattro figli, nonna di undici nipoti e di due pronipoti, la giocosa “Magda”, come si fa chiamare da tutti, rifiuta di essere orgogliosa della traccia che lascia. Sempre in cammino, mai “arrivata”, dice convinta che “sarebbe triste dire di essere arrivati, non si avrebbe più niente da fare”.

Perché chiede a tutti di chiamarla Magda?

Quando qualcuno si rivolge a me dicendo “Signora”, non mi ritrovo. Tutti mi chiamano per nome, Magda, è qualcosa di caloroso. Tutti i bambini che ho incontrato, più di 50 000 in tutta la mia vita, mi chiamano così. Io sono di origini ungheresi. Magda è un nome diffuso nell’Europa dell’est, è il diminutivo di Maddalena. Mia madre si chiamava Ester e mia sorella Irene.

Com’erano, sua madre e sua sorella?

Siamo state deportate insieme. Sono subito scomparse nella camera a gas. Mia madre era molto semplice e presente, mentre mio padre era sempre assente. Questo è il ricordo che ne ho. La mia sorellina era una bambina che manifestava la sua gioia di vivere. Era molto dotata. Avevamo quattro anni di differenza. Io avevo 16 anni, lei 12. Era l’età dell’adolescenza, c’erano sempre conflitti tra di noi. Io era la sorella grande, lei la piccola, allora c’erano dissidi. Non è un dramma, era il nostro vissuto. La mia sorellina fa parte della mia storia personale. C’è una grande differenza tra la memoria e il ricordo. La memoria è per me inscritta nella Storia. Il ricordo è inscritto nel cuore, lo si può usare come si vuole. Ed è molto variabile, può cambiare a seconda degli stati d’animo. La memoria è molto più esigente. Per tutta la vita cerchiamo di purificare la nostra memoria.

Cosa ne è stato della sua lingua materna?

Ho completamente dimenticato la mia lingua materna, non so più parlarla. Non so dire una sola parola in ungherese. Quando mi parlano, non capisco. Posso solo leggere in ungherese. Quando sono tornata in Ungheria dopo la guerra, mi sono resa conto di aver perso la lingua. Certe parole sono rimaste, ma devo riflettere per trovarle. Quella lingua che amavo tanto, mi rivedo bambina, scrivevo molto… Già nei campi di concentramento, ho fatto molta fatica a parlare con le donne ungheresi. Parlavo molto poco, preferivo ascoltarle parlare. Un giorno una donna mi ha dato quattro pezzetti di pane che le appartenevano, e mi ha detto con una voce appena udibile, in ungherese: “Sei giovane, devi vivere, per dire al mondo quello che succede qui, in modo che non succeda più”.

Quel giorno, ho capito tutto.

Qual è il suo primo ricordo uscendo dal campo di concentramento?

Quando gli americani ci hanno trovati, eravamo in condizioni pietose. Ci hanno portati da persone che volevano offrirci molte cose. Ho detto che non avevamo bisogno di tutte quelle cose, ma solo di un vestito per cambiarci. Allora gli americani mi hanno chiesto che cosa desideravo. E ricordo che non sono stata capace di dire se preferivo prima mangiare del pane o lavarmi. Ho scelto di lavarmi.

Non immaginate la gioia che ho provato nel vedere tanta acqua davanti a me. Vedevo mille colori.

Era una bacinella del tutto normale, grande, di zinco, ma era piena di acqua tiepida, non mi raggelava. Ho potuto lavarmi le mani, la faccia, tutta quell’acqua solo per me! Non mi ero spogliata, ma scoprivo un corpo che era il mio. Solo dopo ho mangiato del pane. Anzi, non l’ho mangiato, l’ho divorato.

Che tipo di bambina è stata?

Ero molto determinata, già prima della guerra non ero una persona facile, esigevo delle cose. Mi trovavo molto bene tra gli alberi, mi arrampicavo tra i rami con i miei fogli e i miei pastelli.

Scrivevo tutto ciò che non andava bene. Mettevo tutto ai piedi dell’albero. Perché ero sicura che mi avrebbe ascoltato e non lo avrebbe detto a nessuno. Quando mi hanno proibito di andare a scuola a 14 anni, è stata un’umiliazione per me, mi piaceva tanto andarci. L’Ungheria era molto antisemita, mai nessuno ci ha teso la mano. Ero una bambina molto ribelle, volevo che le cose fossero giuste. E trovavo che la vita non fosse giusta. Per noi ebrei, non lo era.

La settimana scorsa, al telefono, lei mi ha detto che adora le domande. Che cosa le piace, nelle domande?

Quando si fanno delle domande a qualcuno, lo si fa esistere. Non lo si considera un oggetto. Se le viene posta una domanda, vuol dire che lei ha la parola. Per me, la domanda è qualcosa di esistenziale, non ci dovrebbero essere domande proibite. Quando non si ha la risposta a una domanda, non è una cosa grave. Si può sempre rispondere: “La sua domanda mi interpella, ma non so rispondere”. Così, si esprime ciò che si sente. Nessuno può rispondere per un altro. Una domanda è un ponte, un’apertura verso l’altro.

Dice questo ai giovani che incontra?

Quando sono davanti a loro, dico: “Voi siete unici, siete molto importanti”. Spesso noi consideriamo gli altri, specialmente i bambini, come oggetti, come nostri oggetti, come se ci appartenessero. Nessun bambino ci appartiene. Noi dobbiamo accompagnarli perché appartengano a se stessi. Spesso, si decide per loro. Molti mi rispondono: “Magda, nessuno ci ha mai detto che eravamo importanti”.

Le parole semplici hanno spesso molto peso. Dico loro anche: “Siete responsabili della vostra vita”. Forse è ovvio, ma non lo sento dire spesso. Le persone portano dentro di sé la ferita di non essere state ascoltate per se stesse. Il bambino è un essere vivente che noi accompagniamo per il suo divenire. Non si può mai divenire da soli, abbiamo sempre bisogno che qualcuno ci riveli a noi stessi.

Qual è la domanda più rilevante che le hanno posto i giovani?

“Magda, come possiamo lavorare per la pace?”. Rispondo loro che si preferisce rimproverare delle cose all’altro piuttosto che amarlo. È il vizio della nostra epoca. Internet è sempre un processo aperto. Tutti si dividono, perché tutti criticano e trovano sempre nell’altro ciò che non va. Invece di vedere ciò che va bene. “Non avete tutti uno sguardo?”, rispondo a quei giovani. Sappiate che con quello sguardo, potete uccidere, giudicare e condannare. Dico loro: guardando, qualche volta, avete umiliato. Avete messo da parte la violenza, avete dato a qualcuno la forza di andare avanti? Avete suscitato in lui la bellezza e lo slancio per vivere? Un semplice sguardo su un essere può uccidere in lui il gusto della vita. Un semplice sguardo può salvarlo. Noi siamo rivelatori del meglio e del peggio dell’altro. Perché quel bisogno di giudicare? Questo è lavorare per la pace. Ecco la mia risposta.

Che cosa l’ha maggiormente scioccata di ciò che ha sentito da parte dei giovani?

Parlavamo di barzellette. Uno di loro mi ha raccontato questa: “Qual è l’hotel con più stelle?”. E la risposta era: “Auschwitz”! Avevo davanti a me centinaia di giovani, ho chiesto loro che cosa provavano quando sentivano quella barzelletta. Mi hanno detto che ridevano con gli altri. Ho detto loro: ma è proprio una barzelletta? Non si rendono conto della realtà delle parole, della realtà dei fatti. Si toglie loro la coscienza, eppure chiedono solo questo. E mi chiedo che cosa trasmettiamo loro, noi adulti…

Ci chiediamo soprattutto che mondo è questo in cui l’uomo è capace sia delle cose più belle che delle cose peggiori… Questo mondo è dentro di lei. è dentro di me. Vede, se decidessi di raccontarle la parte più oscura della mia vita, con tutto quello che ho visto di orrori dell’umanità, potrei scoraggiare chiunque a vivere. Ma scelgo di parlare di ciò che vi è di buono. Oggi tutti si dividono, è facile. Detronizzare qualcuno, è alla portata di qualsiasi imbecille! Ma vedere che nell’altro c’è la possibilità del meglio, questo è salutare.

Bisogna aver conosciuto la sofferenza per apprezzare la vita?

Non necessariamente. Una cosa è certa, tutti conosciamo la sofferenza. Bisogna interrogare questa sofferenza: è legata ad una mancanza di comprensione, a un giudizio, ad una umiliazione? Se l’ingiustizia ci fa soffrire, significa che in noi c’è del giusto, e così via. Ma qualcosa mi interpella ancora nella natura umana. Come è possibile la sottomissione totale? I nazisti, per esempio, erano dei morti viventi, non soffrivano. Perché credo che il fanatismo sopprima ogni umanità. Lei pensa che l’uomo che ha ucciso quel professore in ottobre avesse dei sentimenti? Questo cadere in una simile violenza è un grande mistero. La mia conclusione allora è che quando si sente una sofferenza, o ci si vendica, o si cerca di capirne l’origine.

Lei è sopravvissuta alla Shoah. Qualcuno le ha suggerito di dire di avere 18 anni arrivando ad Auschwitz, così ha evitato la camera a gas. Come è riuscita ad evitare che la domanda “Perché io?” la perseguitasse per tutta la vita?

Sono una sopravvissuta. Mi sono posta la domanda a 17 anni quando sono stata liberata: perché sono sopravvissuta? Tutte quelle persone meravigliose che sono andate in fumo, vecchi, bambini, per niente. Solo perché erano ebrei. Quando ho riconosciuto che sarei potuta morire, la cosa era una realtà. Non avevo più paura di morire. Proprio come oggi, mi sento alla fine del percorso della mia vita. So che non mi resta più molto tempo. Ma interiormente mi sento in pace, perché è una realtà e non ho più paura. Mi dico, ho 93 anni, ho avuto una vita piena. Mi dico molto umilmente che a lungo mi sono punita per essere viva, ma ho capito che colpevolizzando la mia vita davo ancora ragione e un immenso potere a Hitler su di me. Quando l’ho capito, mi sono svegliata, quasi dall’oggi al domani. Avevo 40 anni.

A che cosa è servito tutto il silenzio tra la sua uscita dal campo di concentramento a 17 anni e i suoi 40 anni?

Quel silenzio? Era un’autodistruzione. Ci sono dei silenzi buoni, spirituali, che costruiscono. Ma quello, mi puniva per essere viva. Ho voluto morire tre volte, dopo il campo. Capisco che alcuni si siano suicidati. La morte di esseri come Primo Levi, è un grande dispiacere. Erano delusi. Anch’io ero delusa, ma c’era sempre qualcosa a trattenermi. Penso che tutti coloro che sono morti, fino all’ultimo minuto volessero vivere.

Lei dice che la Chiesa non l’ha molto difesa durante la guerra. Perché allora si è convertita al cristianesimo?

Dopo la guerra sono stata messa in un orfanatrofio, poi in una comunità protestante. Lì c’era una signora splendida ad occuparsi di me. Le ho chiesto il significato della croce che aveva attorno al collo. Quella croce risvegliava in me dei ricordi, quando, a 7 anni, in Ungheria, ero fuggita da casa un venerdì santo, nonostante il divieto, e avevo visto dei cristiani uscire dalla messa con una croce in mano, e picchiare degli ebrei per la strada proprio con quella croce. Quello che mi spaventa ancora, nella celebrazione del venerdì santo, è che leggiamo nel Vangelo di Giovanni “gli ebrei”, identificati come i cattivi. La Chiesa ha trasmesso questo. Allora, dico al prete, ancora oggi, non si può dire “alcuni” ebrei? Se no, vuol dire tutti. Il pericolo è nell’articolo. Come quando si usa “si” (si fa, si dice…). “Si” non è nessuno! Svegliatevi, voi siete qualcuno! Essere ebrei, è vivere nella certezza che al termine della storia, e per sola grazia di Dio, la giustizia e la pace l’avranno vinta.

(Si interrompe, emozionata, prima di terminare la frase). L’avranno vinta, sull’odio e sulla morte.

In questo senso, il prete mi ha risposto un giorno che eravamo tutti ebrei, è la base dell’umanità. E, come dico spesso, Auschwitz è in ognuno di noi. Ma quando vedo la recrudescenza dell’antisemitismo in Francia, mi preoccupo profondamente. Perché se è in pericolo l’ebreo, è in pericolo l’umanità, è in pericolo Dio.

Che cosa l’ha riconciliata con la croce?

È per non aver più paura che bisogna porre delle domande. Quando ero piccola, avevo paura quando incontravo una croce ad un incrocio. Ma la signora che ho incontrato in quella comunità mi ha risposto parlando della sua medaglia: quella croce, è Gesù Cristo. Poi mi ha dato il Vangelo. Io l’ho aperto e sono capitata per caso su Matteo 25: “Avevo fame e mi ha dato da mangiare. Avevo sete e mi hai dato da bere. Ero nudo e mi hai vestito”. Mi sono detta: “Ma questo è stupendo, questo è uno che mi interessa”.La Bibbia è meravigliosa, parla di noi oggi. Non sono una convertita, perché non ho mai abbandonato le mie radici. Ma ho capito che Dio si era assunto un rischio facendosi uomo. Che è uno che ci dice quanto l’essere umano è importante. Ho capito che si scopriva Dio attraverso l’uomo, che non lo si imparava a memoria. Quando ho “sposato” la Chiesa, ero giovane. Oggi sono un’ebrea battezzata, un’ebrea cristiana, sono nella Chiesa. Sono sempre attenta a dire che siamo tutti dei giudeo-cristiani. Cammino sui passi del Cristo ebreo. Quando la Chiesa non fa riferimento alle sue radici, è in pericolo, si inaridisce. Per me, essere cristiana, è una responsabilità che ho scelto.

Nel suo libro, lei scrive che il domani dipende dal modo in cui viviamo il presente. Che cosa intende dire?

Il modo in cui vivo, su cui mi interrogo ogni giorno, che analizzo e cerco di comprendere, è ciò che costruisce il domani. E poi c’è il fatto di amare, di imparare ad amare. Si parla molto dell’amore, in tutte le salse. Ma la parola amore è molto forte. Non si ama mai appieno. Spesso amiamo l’altro per noi stessi, ma raramente solo per lui. Perché non si ama mai veramente l’altro se non quando si è imparato ad amare se stessi. Spero di morire amando. Ad ogni modo, fino alla fine della mia vita avrò da imparare ad amare.

Il suo libro è un’ode alla gioventù, ma il periodo che stiamo vivendo ci fa venire voglia di fare un’ode alla vecchiaia. All’età avanzata, a ciò che perdiamo in maniera accelerata da alcuni mesi, a causa dell’allontanamento fisico tra le generazioni.

È vero, tutte queste memorie si spengono in maniera accelerata dall’inizio di questa crisi. Bisogna celebrare l’età! Quando si arriva ad una certa età, si ha la tendenza a pensare che la morte sia il punto conclusivo, ma il punto a cui guardare è sempre il domani. Indipendentemente dall’età, la vita è sacra, e ognuno di noi è responsabile del domani. Tutto comincia attraverso di noi, c’è un inizio in ognuno di noi, portiamo il mondo fino al nostro ultimo respiro.

Lei che ha vissuto quasi un secolo, quale confronto può fare tra i due grandi eventi mondiali che hanno segnato l’inizio e la fine della sua vita?

Ho l’impressione di aver già vissuto il periodo che stiamo vivendo. Non tanto per il virus in quanto tale, ma per ciò che vi è sotteso: la minaccia della divisione, la paura crescente dell’altro, degli arabi, degli ebrei. Non bisogna mai fare di ogni erba un fascio, bisogna fare attenzione a non lasciarsi influenzare. Posso scegliere e non devo subire lo stato d’animo nel quale vivo questo periodo, ma questo è impegnativo. Quando siamo negativi in una discussione, non ci rendiamo sempre conto che riveliamo l’altro/a nel suo ripiegamento su se stesso/a, invece di rivelarlo/a in tutta la bellezza che c’è in lui/lei. La mia vita mi ha provato che anche nella persona peggiore c’è qualcosa di buono, di questo sono sicura. Ognuno aspetta che lo si riveli a se stesso. Ognuno diventa, evolve e cresce in funzione del modo in cui lo si accoglie.