Intervista a Franco Lorenzoni a cura di Walter Veltroni in “Corriere della Sera” del 13 settembre 2020
Franco Lorenzoni si è guadagnato negli anni, sul campo, la stima e l’attenzione del mondo della scuola italiano. La sua esperienza di laboratorio con i bambini ad Amelia e quella trentennale dell’insegnamento a Giove, in Umbria, hanno a che fare con la migliore tradizione pedagogica del nostro Paese. Ha recentemente scritto un libro, pubblicato da Sellerio, dal titolo «I bambini ci guardano. Una esperienza educativa controvento».
Immagina di non essere in pensione ma in classe e di vedere arrivare lunedì, con le mascherine, i tuoi bambini. Cosa dici loro?
«Cercherei di curare con grande attenzione l’accoglienza, come stanno progettando di fare migliaia di insegnanti. E non parlerei di ciò che è accaduto in modo esplicito e diretto perché non funziona. Cercherei piano piano di far emergere impressioni e ricordi di quello che si è vissuto. C’è stato un grande sconvolgimento nella vita quotidiana di bambini e adolescenti, che ha generato emozioni inedite e nuove idee. È molto importante raccoglierle, trascriverle, e poi confrontarle e farne territorio di conoscenza. Il rischio è che rimangano sepolte nella memoria di ciascuno e non si abbia la possibilità collettiva di elaborarle e dunque non se ne traggano le conseguenze culturali, che possono essere molto importanti. Il tempo della “non scuola” è stata per tutti un’esperienza profonda. Bisogna parlarne, per razionalizzare e condividere».
Hai paura che il silenzio nasconda?
«Si può partire da un disegno, da un sogno, da un testo. Dialogando molto emergono spesso spunti portati dai bambini ed è sempre interessante quando le cose arrivano in modo indiretto. C’è una bella immagine evocata da Calvino nella “lezione americana” sulla leggerezza, quando parla dello sguardo di Perseo. L’eroe scruta il mondo attraverso il suo scudo e questo modo indiretto gli permette di guardare negli occhi Medusa, senza esserne pietrificato. A questo serve la cultura e dunque la scuola, a guardare la realtà —anche quando ci ferisce come il virus — senza restare pietrificati».
Cosa è stato il lockdown per i bambini?
«Ci sono bambini che hanno goduto inizialmente di una specie di curioso carnevale, in cui molte cose erano rovesciate, e altri che hanno sofferto moltissimo. Sono aumentate in modo esponenziale le discriminazioni e oltre un milione di bambini e ragazzi sono rimasti isolati, completamente disconnessi. Quando si abita in tanti in spazi ridotti o in famiglia regna la tensione o la sopraffazione, restare chiusi in casa diventa un incubo. Le infanzie sono vissute in modi completamente diversi. A tutti è mancata molto la presenza dei compagni, l’incontro quotidiano, il vivere in una piccola comunità. Non dimentichiamo mai che la metà dei bambini sono figli unici e stare intere giornate circondati da adulti spesso non è una esperienza tanto allegra».
In questa crisi è cambiata la percezione della morte nei ragazzi?
«I bambini parlano spesso della morte. È molto presente in loro il tema della scomparsa, dell’assenza, di cosa accade quando si muore. Credo che in questa occasione abbiano piuttosto vissuto con trepidazione la paura del mondo adulto che hanno visto, taluni per la prima volta, più inquieto e con meno certezze. Seguire ogni sera i numeri quotidiani della pandemia e incontrare la grande incertezza dei genitori sul da farsi è certo entrato nell’immaginario infantile. Ci vorrà tempo per scoprire cosa ha provocato. Anche a questo serve la scuola e credo che incontrare adulti incerti, che si pongano domande, sia un bene. Se saremo in grado di non riempire subito con facili certezze il grande smarrimento provocato dalla pandemia, sarà per tutti una buona scuola di umiltà e di
umanità. E una straordinaria occasione per scoprire quanto sia importante porsi domande e amare scienza e conoscenza. Capire è importante, molto importante. La scienza è entrata nella nostra vita e tutti ci siamo resi conto di quanto sia decisivo fare esperimenti, studiare, cercare di capire. Quanto
ci rassicuri poter far affidamento su buoni medici e infermieri ce ne accorgiamo quando abbiamo un nostro caro ammalato. In questo caso ce ne siamo accorti tutti insieme. Non dobbiamo farci sfuggire questo piccolo varco che si è aperto e dobbiamo esplorarlo anche con i bambini».
Temi che i bambini possano considerare l’altro da sé come un pericolo?
«Facciamo un passo indietro. Una delle esperienze più significative e positive che la scuola dell’infanzia ed elementare ha realizzato negli ultimi trent’anni è stata la capacità di integrare con i figli di famiglie straniere immigrate. È stata un’impresa enorme, realizzata spesso con sensibilità ed efficacia dalle maestre (parlo al femminile perché sono il 96%). La scuola primaria è stata il luogo pubblico più aperto all’incontro interculturale, uno straordinario laboratorio di convivenza tra diversi, tanto che molti insegnanti si sono spesi con convinzione per lo Ius soli e lo Ius culturae. Oggi il rischio concreto che un bambino avverta l’altro come portatore di malattia è da considerare con estrema attenzione».
È il momento più difficile della scuola italiana?
«Conosco insegnanti che non ci dormono la notte. Mantenere un metro di distanza dal tuo compagno e indossare la mascherina ogni volta che ti alzi non è facile. Pensiamo ai tanti bambini iperattivi o con disturbi del comportamento. Cosa facciamo, li puniamo? Penalizziamo la loro incapacità di stare fermi e seduti per ore? Allontanarli affidandoli a un insegnante di sostegno o a un operatore sarebbe una sconfitta per tutti perché darebbe luogo a nuove forme di apartheid educativo. E allora bisogna lavorare con duttilità sui contesti e immaginare soluzioni con grande creatività. Ci sono maestre che stanno progettando ricreazioni in luoghi aperti della città. Credo che, ovunque sia possibile, intorno alle scuole dovrebbero essere create isole pedonali abitabili da bambine e bambini. Siamo di fronte alla sfida educativa più difficile di sempre e si tratta di costruire insieme delle regole sensate per andare incontro al bisogno di sicurezza, che sicuramente è fondamentale perché riguarda tutti, ma anche condividere con i bambini le difficoltà e cercare insieme soluzioni. Senza una lunga e complessa costruzione di un sentire comune è difficile dare regole che siano rispettate. Dobbiamo tutti metterci in ricerca e non limitarci ad applicare protocolli, pur necessari. La parola chiave in questo momento è includere tutti. Sapendo riconoscere che ogni ragazzo è diverso, ognuno ha qualità originali, ognuno ha un background familiare che influenza il suo apprendere. Ogni bambino è un mondo, non un numero».
La scuola, abbandonata nel territorio, finisce con l’essere isolata?
«La scorsa primavera, quando le discriminazioni crescevano a dismisura e troppi bambini e ragazzi sono rimasti completamente isolati, sono sorte alleanze inedite tra insegnanti e operatori sociali attivi nel territorio per fornire device a chi non li aveva. Per affrontare le tante fragilità e disabilità, per contrastare il crescere della povertà educativa, è necessario costruire patti territoriali capaci di coordinare le scuole con i comuni, i municipi, le Asl e il variegato mondo del terzo settore. Promuovere e realizzare “comunità educanti” attorno alle scuole, come in tante realtà difficili si sta cominciando a fare, è necessario più che mai perché quello che si cerca a fatica di costruire nella scuola non venga disfatto dal territorio che le circonda. Nel deserto la scuola da sola non ce la fa. Ci sono quartieri urbani del sud in cui il 40% dei ragazzi smette di frequentare la scuola dell’obbligo. Possibile che questo inaudito spreco di intelligenze non venga messo all’ordine del giorno della vita pubblica? Moltiplicare i linguaggi è il modo migliore per cercare di includere tutti. Per questo le scuole devono essere aperte tutto il giorno e offrire la più vasta e ricca varietà di proposte educative e di incontro per ragazze e ragazzi. Sono anni che se ne parla, è il momento di farlo. A 50 anni dall’istituzione del tempo pieno non è tollerabile che riguardi solo un terzo degli studenti della scuola di base. Questo vuol dire che si fa meno scuola dove ce n’è più bisogno. La scuola pubblica deve restare al centro ed essere rafforzata, ma dobbiamo immaginare le più larghe collaborazioni e mille forme di intervento per contrastare la desertificazione culturale dei territori più a rischio, investendo molto di più e meglio».
Consigli da dare all’attuale ministro?
«Credo che la gestione di questa fase sia stata largamente inadeguata. Pochissimo si è fatto per mettere in comunicazione le esperienze più significative e renderle generative, tenendo vivo il confronto educativo. Dobbiamo facilitare al massimo lo scambio di pratiche sensate ed efficaci perché siamo in una fase di ricerca. Noi stiamo chiedendo ai nostri figli e nipoti un sacco di soldi. È a loro che stiamo chiedendo un prestito, non all’Europa. È sulle loro spalle che ricadrà un debito pubblico di proporzioni gigantesche. E allora abbiamo l’obbligo etico, prima ancora che politico, di risarcirli. E l’unico modo per risarcire le nuove generazioni sta nell’investire in istruzione, educazione, ricerca e formazione almeno il 20% del recovery fund. L’Italia è l’unico Paese in Europa che affrontò la crisi del 2008 tagliando fondi all’istruzione. Mentre tutti investivano di più, Tremonti tagliò 8 miliardi alla scuola di base».
In nessun luogo sociale come la scuola è giusto sperimentare una dimensione circolare invece che verticale?
«Calamandrei diceva: “Se lo Stato fosse un corpo, la scuola sarebbe l’organo ematopoietico”, cioè dove si forma il sangue. Questo luogo non può che essere partecipato e attivo. Un luogo in cui bambini e ragazzi siano protagonisti. E allora affrontare le difficoltà della sicurezza nella scuola può diventare una grande palestra di democrazia. Una reale educazione civica deve cogliere oggi questa sfida: scriviamo insieme le regole per proteggere la salute di tutti. Ma per poterla cogliere dobbiamo impegnarci assai ed essere consapevoli che la scuola è un luogo di creazione culturale e non di pura trasmissione di conoscenze. In questo momento la cultura di cui abbiamo maggior bisogno riguarda l’attenzione e la cura. Se ci pensi lo scorso anno scolastico iniziò il 27 settembre, con le grandi manifestazioni del movimento dei venerdì del futuro promosso da Greta Thunberg. Quelle manifestazioni dicevano una cosa chiara: capire e cambiare. Se tu non cambi vuol dire che non hai capito. Oggi quel capire e cambiare parte dalla costruzione di una cultura della cura. Cura delle relazioni reciproche, degli spazi che abitiamo, degli equilibri del pianeta. Se non ora, quando?».
La scuola resta ai margini delle scelte pubbliche…
«Mi fa un po’ rabbia che parlino di centralità di ricerca e istruzione solo Draghi o Visco. Mi piacerebbe fosse all’ordine del giorno di chi governa. Dovrebbe essere la priorità di un Paese che ha bisogno di profonde trasformazioni per crescere e aprirsi a una profonda conversione ecologica. È una vergogna che l’Italia sia penultima in Europa per numero di laureati: il 27,6% contro il 40,3% della media Ue. Questa mancanza di desiderio di istruzione deve interrogarci come insegnanti, perché se così tanti giovani non credono nella conoscenza come possibilità di sviluppo della loro personalità, qualche responsabilità credo che l’abbiamo anche noi. È importante rivendicare la centralità della nostra funzione, ma anche darci da fare».
L’Italia non è un Paese per giovani…
«Negli ultimi anni a scuola con i bambini ho lavorato molto sulla statistica. La cosa che più li colpiva era che al sud del Mediterraneo il 50% della popolazione fosse sotto i 24 anni e da noi invece meno del 20%. Una bambina un giorno ha detto: “Se al nord sono vecchi e ricchi e al sud giovani e poveri, cosa succederà?”. Un’altra una volta ha fatto una scoperta sorprendente. Stavamo lavorando sull’emigrazione e lei si è ricordata di un quadro di Giotto su cui avevamo lavorato a lungo in prima elementare: la cacciata dei demoni da Arezzo. Davanti a san Francesco c’è la città di Arezzo con due porte, dalle quali si affacciano un povero e un ricco. In mezzo c’è un abisso, la terra è spaccata. Da quel crepaccio si levano demoni che volteggiano in cielo. Questa bambina, in terza elementare, ha esclamato: “Allora il mar Mediterraneo è la spaccatura di Giotto”. Ecco, questa capacità di fare associazioni e domandarci cosa accade con la ricchezza di suggestioni che provengono da un affresco del 1300 mi ha confermato che questa è la cultura di cui abbiamo bisogno. Osservare un quadro, leggere un racconto o ragionare su una tabella di dati può aiutare a capire cosa succede oggi, quando lo colleghiamo alla nostra vita. Quando accade, bambine e
bambini si emozionano, scoprono la gioia della conoscenza, che può essere ricerca attiva, scoperte da condividere, scambio. Mi fa disperare la scuola che rende tutto uguale: fai geografia, musica o scienze e tutto è sempre uguale, leggere o ascoltare, mandare a mente, ripetere in una interrogazione o verifica. Se non si dà voce alle diverse opinioni di chi impara perdiamo la radice più feconda della motivazione allo studio che è sforzo, fatica, ma anche gioia della scoperta di connessioni inattese».
Bisogna inventare un nuovo modello, sperimentare…
«Questo sarà l’anno degli occhi, perché ci dovremo guardare tantissimo. Sono convinto che sarà utile mettersi spesso le mascherine per avere la libertà di disporsi in cerchio, discutere, cercare insieme. Mettiamo le mascherine e facciamo in modo di lavorare scambiando pensieri tra i bambini e non solo guardando verso la cattedra. Immaginare di tenere quattro o sei ore i bambini seduti e distanziati è assurdo. E poi usciamo e proviamo a utilizzare tutti gli spazi possibili e immaginabili nella città. Sempre Calamandrei definiva la scuola come “incubatrice di vocazioni”. È una espressione che mi piace molto: l’incubatrice è una macchina costruita per far fronte alle difficoltà della natura e superarle. La scuola deve essere proprio questo: sono tanti i bambini che soffrono, un milione di bambini vivono in condizioni di povertà assoluta. E allora le scuole dovrebbero farsi incubatrici, per limare le differenze e fornire opportunità. Sono lo spirito e la lettera della nostra Costituzione».
Se dovessi dire il momento più bello vissuto da educatore e quello da alunno, quali sceglieresti?
«Come studente certamente l’incontro con Emma Castelnuovo alle medie. Ci faceva creare la matematica, ci faceva gioire nel capire. Quando la scuola è questo, è un luogo di sogno. I momenti più felici da insegnante sono quelli in cui ho imparato di più ascoltando i miei alunni. Un giorno una bambina, dopo un lungo lavoro su Gandhi e la nonviolenza, ha detto: “Ho capito… Gandhi non dava ragione a uno, ma a due”. Una sintesi geniale del pensiero nonviolento. Ne abbiamo parlato a lungo. Che voleva dire? Si era resa conto che la ragione di uno non è mai assoluta».
Hai scelto di portare il tuo desiderio di cambiare il mondo e combattere le discriminazioni nel piccolo, con i piccoli. Per il Talmud salvare una persona significa salvare il mondo intero…
«Nel Talmud mi hanno raccontato che non viene mai pronunciata la parola maestro, sostituita dalla bellissima espressione di “scolaro saggio”. Solo chi riesce a rimanere scolaro tutta la vita può provare a far bene il mestiere di maestro».