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“Sinodalità e celibato” di Giuseppe Morotti

Nelle conclusioni della prima tappa del sinodo al cap. 11 viene riferito che nelle varie commissioni che lo hanno preparato, “alcuni si chiedono se il celibato per i presbiteri della chiesa latina si debba necessariamente tradurre in un obbligo disciplinare, sopratutto dove i contesti ecclesiali e culturali lo rendono più difficile. Si tratta di un tema nuovo che richiede di essere ulteriormente
ripreso”.
Vorrei, in uno spirito sinodale, dare un contributo all’approfondimento di questo tema, portando la mia testimonianza di prete che si é sposato ma che continua a sentirsi parte viva della comunità ecclesiale. Non credo innanzitutto che ci siano impedimenti dottrinali che vietino l’accesso al matrimonio di presbiteri uomini e perché no, anche di presbiteri donne.
Sono convinto che i fedeli siano nella stragrande maggioranza preparati a questo passo. Il mio
insegnante di storia della chiesa, affermava che le prime comunità cristiane, come era consuetudine nelle comunità ebraiche a partire dalla distruzione del tempio, si riunivano nelle case. Luoghi questi in cui non solo uomini sposati come lo erano vari degli apostoli ma sovente anche le loro donne,
signore indiscusse della casa, erano solite gestire la cena eucaristica e spezzare il pane.
I nostri fratelli anglicani e protestanti sono rimasti aperti a questa tradizione in cui non trovano
niente di dissacrante né di inopportuno. Nelle chiese orientali ortodosse ed anche nelle chiese orientali cattoliche, come quella caldea nella quale in Iran ho vissuto per dieci anni, per i candidati al ministero vi è la possibilità di scegliere liberamente se essere dei presbiteri sposati o dei presbiteri celibi.
Come ho ben potuto costatare, scelte diverse, che nella loro complementarietà, costituiscono un arricchimento per l’intera comunità. Scelta celibataria, ci tengo a sottolinearlo per averla vissuta come tale per due decenni, da accogliere come un dono prezioso e di conseguenza mediante una libera scelta.
Vi è poi quello che potremmo chiamare un eloquente ed incontestabile “segno dei tempi”: i seminari delle nostre diocesi sono sempre più vuoti e di conseguenza i presbiteri sempre più anziani e meno numerosi, sono costretti a sobbarcarsi l’onere di più di una parrocchia, rischiando di trasformarsi loro malgrado, in burocrati del sacro, anziché in “pastori che sentono l’odore delle loro pecore”.
A darmi il coraggio di riaffermare questa mia convinzione, vi è anche la mia esperienza personale. Il fatto che fossi un prete che ha scelto di formare una famiglia, non ha impedito che venissi accolto con comprensione e perfino con calore dalla mia comunità parrocchiale e diocesana a partire dal mio parroco, dal vescovo e dai vari presbiteri del decanato. Tra questi vi é anche un presbitero romeno sposato, che lavora in fabbrica ed é al servizio dei suoi connazionali di tradizione cattolico-ortodossa.
Sono anche stato coinvolto in un primo tempo in compiti para-ecclesiali nella Caritas diocesana ed in seguito sempre maggiormente in compiti prettamente formativi ed ecclesiali i quali, pur non potendo celebrare i vari sacramenti, continuano a farmi sentire quel presbitero che sono stato nel passato.
Personalmente, data la mia età avanzata, non pretendo affatto di essere riammesso ad un pieno
presbiterato. Tuttavia ogni volta che nelle nostre parrocchie, incontro laici, madri e padri di famiglia capaci ed esemplari, mi chiedo se non sia veramente il tempo in cui potrebbero essere scelti a loro volta come presbiteri. Basterebbe dare loro la possibilità, nel caso ce ne fosse bisogno, di un ulteriore aggiornamento teologico e biblico e, perché no, di un adeguato aiuto economico, come quello che i parroci già percepiscono.
L’obiezione che spesso si fa è che il prete celibe non avendo una famiglia a carico, é più disponibile per la comunità. È pur vero, ma è anche vero che ad un presbitero sposato, proprio perché ha famiglia, verrebbe più facile delegare vari dei compiti richiesti dalla comunità a coloro che ne hanno il carisma, costituendo in tal modo una comunità non solo a tratti ma per natura ed in continuazione sinodale e meno clericale.
A parte il fatto che per un presbitero sposato il tempo più risicato che avrebbe per la sua comunità, potrebbe venire ben compensato a mio parere, oltre che da un più marcato equilibrio affettivo ed umano, da una esperienza familiare in grado di fargli meglio comprendere le gioie e le difficoltà che quotidianamente coinvolgono la vita dei suoi fedeli.
A questo proposito vorrei portare un esempio che farà un pò sorridere, ma che ritengo emblematico al riguardo, anche se di poca importanza rispetto ad altri ben più seri che potrei riportare.
Non avevo ancora terminato il sesto anno di teologia che, essendo appena stato ordinato prete,
per le feste di Pasqua, fui mandato in una parrocchia per aiutare a confessare. Mi si presentò in confessionale un giovane marito che con un’aria alquanto sconvolta iniziò la sua confessione dicendomi di ritrovarsi in un grave stato di peccato. Era giunto letteralmente ad odiare la suocera, fino a minacciarla e ad augurargli la morte tanta era la zizzania che giornalmente spargeva nella sua famiglia.
Da prete imberbe, cresciuto in seminario dall’età di 10 anni e naturalmente totalmente ignaro di cosa volesse dire avere a che fare con una suocera, mi premurai di raccomandargli di portare pazienza… mica avrebbe potuto essere una belva quella sua benedetta suocera…che pregasse un pò di più e tutto si sarebbe messo a posto accomiatandolo infine dopo l’assoluzione, con una bella pacca di incoraggiamento sulle sue spalle…
Una volta sposato mi è capitata proprio la suocera giusta: una suocera pugliese, tanto generosa
quanto possessiva ed intromissiva che con estrema difficoltà, io e mia moglie ancora oggi, benché oramai molto anziana, a malapena riusciamo a sopportare….
Vi confesso che di tanto in tanto mi viene in mente quel giovane marito…
Vorrei tanto incontrarlo di nuovo e chiedergli perdono per quelle parole insulse e avulse da ogni esperienza, con cui nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’avevo congedato,
rimandandolo con tanta superficialità in pasto alla sua suocera.


Articolo pubblicato nel n. 43 di Adista Segni Nuovi (www.adista.it)