«Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione». Il testamento dell’ultimo profeta.
Il 6 febbraio di 30 anni fa scompariva una delle figure più carismatiche della Chiesa moderna, sempre dalla parte degli ultimi («meglio perdenti che perduti» diceva). L’ostracismo delle gerarchie ecclesiastiche e l’omaggio di Martini: «Abbiamo sbagliato».
di Vito Mancuso, Corriere della Sera 4 febbraio 2022
Sul Corriere della Sera del 1951 Dino Buzzati pubblicò un vivace ritratto di Turoldo, allora giovane frate di 35 anni che, dopo gli studi teologici, si era laureato in filosofia ed era diventato famoso in tutta Milano per la predicazione in Duomo. Ecco le sue parole: «Padre David è friulano, giovane, alto, magro, longilineo, biondo, tiene i capelli piuttosto lunghi tirati indietro, porta l’ampia tonaca di frate servo di Maria con eleganza naturale e scrive poesie […]. In borghese potrebbe sembrare un violinista, uno scienziato nordico, un maestro di sci. Se la Chiesa fosse una forza armata, padre David sarebbe paracadutista o pilota dei mezzi d’assalto. Ci sono molti bravi medici, ma i medici innamorati del loro mestiere sono relativamente pochi: così per i preti e i frati. E David Turoldo è appunto un entusiasta. Questa è la cosa straordinaria che fa più impressione di lui, oltre alla schiettezza straordinaria; e probabilmente non dipende tanto dalla giovinezza, dal temperamento e dall’educazione, quanto dal fatto che lui ci crede con una fede senza scampo».
La fede senza scampo di Turoldo era contrassegnata da i due libri che teneva sempre sulla sua scrivania: la Bibbia e le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Non fu un caso quindi, una quarantina d’anni dopo l’articolo di Buzzati, che, dovendo dare un titolo all’autobiografia scaturita da una lunga intervista rilasciata a un’italianista di New York, egli propose il seguente binomio: Vocazione e Resistenza. Il primo concetto esprime verticalità, il secondo orizzontalità, ovvero la lunghezza e la larghezza, due delle tre dimensioni dello spazio. La terza dimensione è la profondità, e nel caso di Turoldo la profondità fu la poesia. Vocazione, resistenza e poesia sono quindi i tre concetti che definiscono al meglio chi fu David Maria Turoldo …
Il concetto di vocazione esprime il legame con quella dimensione dell’essere a cui ci si riferisce solitamente dicendo “Dio”, la quale irrompe nella vita di alcuni come un persistente e irresistibile richiamo. Turoldo diceva che la sua non era mai stata una vocazione tranquilla, e tuttavia al termine della vita dichiarava che non gli sarebbe potuta capitare sorte migliore, nel senso di «adatta alla mia natura» perché «io sono un animale religioso». Proseguiva: «Io non so cosa avrei potuto fare se non fossi stato un religioso; forse avrei anche ammazzato, o sarei già stato ammazzato». Era un lottatore, Buzzati aveva visto bene definendolo potenziale paracadutista o pilota dei mezzi d’assalto.
La resistenza fu il suo modo di stare al mondo, a partire da quando, giovanissimo frate inviato nel centro di Milano, prese parte attiva alla lotta contro il nazifascismo. Quegli anni segnarono completamente la sua spiritualità, al punto che per lui fare resistenza ed essere cristiano divennero la medesima cosa: «Sono convinto che il cristiano o è un resistente o non è cristiano». Ovviamente piovvero presto una serie di etichette: «Di sinistra, rosso, comunista», anche a partire dal fatto che una domenica dal pulpito del Duomo intonò Bandiera rossa. Il punto però per lui non era politico ma sociale, e consisteva nello stare sempre dalla parte degli ultimi, come avrebbe fatto anche se fosse stato in Unione Sovietica. Un giorno, sulla falsa riga di quelle evangeliche, coniò questa beatitudine: «Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione». Intendeva opposizione a ogni potere nella misura in cui produce vittime, compreso ovviamente il potere ecclesiastico. Turoldo non fu a priori contro; fu piuttosto a priori per gli ultimi e i perdenti. Diceva: «Meglio perdenti che perduti», e stare a priori dalla parte dei vincitori significava per lui essere perduti, nel senso di aver perduto l’umanità.
La fame e sete di opposizione colloca il cristianesimo dì Turoldo accanto ad Agostino, Pascal, Kierkegaard, i suoi autori preferiti, caratterizzati da una fede in aspra dialettica con la natura e con la ragione: fede come “grazia assoluta”, come “scommessa”, come esito della ”disperazione”. Anche Dostoevskij era un imprescindibile punto di riferimento spirituale e il suo romanzo preferito era L’idiota.
Eccoci infine alla poesia. Essa è stata la forma mediante cui Turoldo visse dentro di sé la vocazione e la resistenza: la profondità interiore, la risonanza spirituale, il risultato esistenziale del suo sentirsi chiamato e del suo opporsi al potere. Secondo Turoldo il mondo è un «connubio mostruoso di vita e di morte, per cui tutto è vero e vano insieme»: si tratta di prenderne coscienza e «nonostante tutto sperare». Da qui la sua poesia come «salvezza», «luce», «ultima consolazione», «intelligenza d’amore», «supplemento di vita».
Di fronte all’antinomia tra essere e non essere, la poesia per Turoldo fu la scelta del polo sì rispetto al polo no. E la dimensione ricreativa (nel senso che dà origine a una nuova creazione) dell’arte.
Ecclesialmente parlando, Turoldo ebbe lo stesso destino di tutti i profeti: persecuzione ed esilio. Il capo del Sant’Uffizio, cardinal Ottaviani, ordinava ai suoi superiori: «Fatelo girare, perché non coaguli». Ciò che Turoldo avrebbe potuto coagulare era la consapevolezza in chi l’ascoltava dell’abissale distanza tra il Vangelo e la Chiesa. E i superiori in effetti lo fecero girare in continuazione, cercando di sradicarlo dalle amicizie e così farlo appassire nella vocazione. Ma a Turoldo gli amici non mancavano mai e furono essi a tenerlo religiosamente in vita. Tra i molti, padre Camillo De Piaz, don Mazzolari, don Milani, padre Balducci e Gianfranco Ravasi nell’ultima parte della vita, quando le persecuzioni per Turoldo cessarono ed egli viveva stabilmente a Sotto il Monte, il paese natale di papa Giovanni, da lui scelto esattamente per onorare il grande papa del Vaticano II.
Negli ultimi mesi di vita giunse persino un pubblico riconoscimento ecclesiastico da parte della Chiesa di Milano con il prestigioso Premio Lazzati, assegnato a Turoldo il 21 novembre 1991 dal cardinal Martini. Ricordando l’amaro destino dei profeti, perseguitati in vita e onorati in morte, Martini disse che a Turoldo era toccato un destino migliore in quanto era riuscito a vedere, seppure alla fine, il pubblico riconoscimento della sua azione da parte della Chiesa. Ecco le parole di Martini: «Con questo premio mettiamo un po’ di riparo al fare soltanto sepolcri ai profeti. Vogliamo dire invece: noi riconosciamo. E in tutto ciò che c’è stato nel passato di non riconoscimento, possiamo dire anche: abbiamo sbagliato. Credo che sia anche onesto riconoscerlo.
L’ultima parola spetta a Turoldo: con questo suo fulminante aforisma: «Dio c’è, ma non si vede. Oppure si vede, e allora non c’è». Intendeva dire che quando qualcuno pretende di aver visto Dio, così da sapere tutto di Lui, e parlarne in suo nome esigendo obbedienza e infallibilità, Dio, in realtà, non c’è; quello che c’è, è solo il potere. Perché si possa dare un’autentica presenza del divino, la condizione essenziale è che permanga il non-vedere, quindi il mistero, da cui non scaturisce il potere, ma la poesia.