di Elena Loewenthal in “La Stampa” del 26 gennaio 2022
Guarda caso. Guarda caso succede che alla vigilia del Giorno della Memoria, un bambino di dodici anni venga aggredito perché è ebreo. È capitato a Venturina Terme: due ragazzine poco più grandi di lui lo hanno insultato e picchiato, gli hanno sputato addosso e minacciato di spedirlo nei forni crematori. I genitori hanno sporto denuncia ai carabinieri della vicina Livorno – e che paradosso che sia successo proprio lì, in una delle pochissime città d’Europa che in quanto porto franco non ha mai rinchiuso gli ebrei in un ghetto.
Guarda caso, ma purtroppo non è affatto un caso, ormai da molti anni a questa parte intorno al 27 gennaio si assiste a un’altissima concentrazione di episodi di antisemitismo. Guarda caso, a dispetto del Giorno della Memoria, il report annuale sull’antisemitismo registra il 2021 come l’anno peggiore del decennio in quanto a incidenti di questo genere. Al di là dell’orrore successo a Venturina Terme, del provare a mettersi nei panni non solo di quel bambino ma anche dei suoi genitori, dei suoi nonni, di chiunque abbia vissuto sulla propria pelle ed è ancora qui con noi a veder succedere cose del genere, non ci si può non porre delle domande. Scomode e fastidiose, ma necessarie.
È mai possibile, insomma, che a diciassette anni dall’istituzione di questa ricorrenza l’educazione alla memoria pare aver fatto un buco nell’acqua invece di spazzar via il pregiudizio? Da diciassette anni a questa parte il Giorno della Memoria entra nelle scuole, fa sentire le voci dei testimoni (sempre meno perché il tempo passa e i sopravvissuti pian piano ci abbandonano), rimbalza sui mezzi di comunicazione. Ogni anno che passa escono sempre più libri sull’argomento: una specie di valanga editoriale che per quantità non ha nulla da invidiare alla stagione delle strenne natalizie. Eppure, tutto questo impegno nel conoscere, diffondere, educare, sortisce uno straniante effetto opposto. Sui social così come nella vita reale, purtroppo, e anche a spese di un bambino come è successo a Venturina Terme, parte puntualmente una infame campagna di odio e violenza. Perché? Come è possibile? Che cosa si può fare? Domande difficili, ma che devono trovare una risposta, altrimenti il 27 gennaio diventa inutile. Peggio: dannoso.
Il punto è che purtroppo non è difficile avvertire intorno a questa ricorrenza un equivoco di fondo che va spazzato via prima possibile per invertire la rotta di un pregiudizio millenario così radicato da attecchire nei modi più imprevedibili. Bisogna insomma che sia chiaro che il 27 gennaio non è un atto di omaggio ai sei milioni di ebrei morti nella Shoah e nemmeno una sorta di tormentato mea culpa collettivo. È, invece, la commemorazione di un capitolo di storia che appartiene all’Europa e all’Italia, la presa di coscienza che quella storia è parte del passato comune. Per assurdo, del passato di tutti fuorché degli ebrei: in quanto progetto di annientamento volto a rendere tutto il continente Judenfrei, la Shoah è proprio la negazione della storia ebraica. È, invece, l’affermazione di una storia che l’Europa e l’Italia non possono e non devono rinnegare bensì riconoscere come propria, per quanto vergognosa e insopportabile. Non potrà funzionare come antidoto al pregiudizio finché, foss’anche con le migliori intenzioni, si continuerà a puntare il dito verso gli ebrei e dire «questa è storia vostra, ci dispiace per voi, vi rendiamo omaggio e ricordiamo, il 27 gennaio». Né stornerà quello spettro che inquietava Primo Levi: siccome è successo, può succedere di nuovo.