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Custodire

La Terra Santa che vuole la pace

la straordinaria profezia di un territorio che la diplomazia internazionale continua a ignorare

di Lucia Capuzzi

Quanto è blasfema la Terra Santa! È questo il primo pensiero che attraversa la mente quando si calpesta quel suolo intriso di sangue e di guerre su cui hanno camminato profeti e re biblici, il Maestro di Nazareth coi suoi discepoli e discepole, Maometto. Ed è vero.
Quando si entra con più attenzione nelle pieghe di un territorio che la diplomazia internazionale non riesce a trasformare in due Stati, però, se ne scopre la straordinaria profezia. Israele e Palestina non sono solo nomi, popoli, identità, confini. Sono una lezione di nonviolenza. Non si tratta di una provocazione. È una constatazione che scaturisce da alcuni dati della realtà mediorientale.
Primo, gli ultimi 75 anni della Terra Santa dimostrano quanto Papa Francesco non si stanca di ripeterci: l’inutilità totale della guerra. Al di là del giudizio etico, il conflitto non risolve alcuno dei problemi per cui è esploso. Anzi, li aggrava. Le soluzioni tecnico-militari, per quanto sofisticate, non garantiscono sicurezza ai rispettivi abitanti. La deterrenza non detiene, insomma. Se non si rimuovono le cause della contesa, il pericolo resta latente, pronto a deflagrare. Il massacro del 7 ottobre è la tragica conferma.
Secondo, la violenza non è naturale. O, meglio, in ogni essere umano c’è un istinto alla violenza. Ma non è questo il punto. Le condizioni affinché un conflitto si perpetui, generazione dopo generazione, si edificano pezzo per pezzo. In molti modi. Ad esempio separando, con barriere visibili e invisibili, i diversi gruppi nazionali o pseudonazionali in modo che non possano conoscersi e conservino un’immagine deformata dell’altro. In Israele ancora il 92 per cento di ebrei e arabi vive in città separate e solo l’1 per cento frequenta le stesse scuole, secondo i dati di Givat Haviva – The center for shared society. Così come si costruiscono, però, tali condizioni possono anche essere decostruite. E tanti lo fanno. E qui viene il terzo fattore, fondamentale. L’ampia fascia di altipiani desertici e di colline verdeggianti tra il Giordano e il mare è un concentrato di buone ragioni per far girare all’infinito la macchina del conflitto. Ciascuno, essere umano, comunità o popolo, ha una sfilza di torti, abusi, vittime da rinfacciare all’altro. Ciascuno ha una motivazione valida per nutrire paura e sfiducia nei confronti del vicino. Ciascuno ha “parole buone” – esistenza, ritorno, resistenza, sicurezza, perfino fede – con cui giustificare la “necessità” di combatterlo. Peggio, di eliminarlo.
Eppure la cappa di odio non è riuscita a impedire che nelle società civili israliana e palestinese crescesse una nutrita schiera di costruttori di pace. Ci sono, a Tel Aviv come a Ramallah, a Gerusalemme e perfino a Jenin. E sono numerosi anche se non trovano posto in una narrativa mediatica funzionale alla logica del conflitto inevitabile. Non si tratta di ingenui sognatori, candidi e sprovveduti. Al contrario. Sono donne e uomini che hanno impresse sulla propria carne – e soprattutto sul proprio spirito – le ferite di una guerra pluridecennale. Il conflitto ha strappato loro giovinezza, figli, amici, prospettive. Ma proprio perché ne conoscono la crudeltà, lo rifiutano. E scelgono, con le loro esistenze, di spezzare il meccanismo. Anche dopo il 7 ottobre. È davvero incredibile come le reti, i movimenti, i gruppi impegnati nella ricerca di un’alternativa nonviolenta di giustizia e dignità per tutti, abbiano resistito e resistano al massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre e alla sproporzionata vendetta del premier Benjamin Netanyahu su Gaza. Questa è la grande lezione della Terra Santa in un tempo ammalato di retorica bellicista e affollato di guerrafondai da salotto. La speranza è che il mondo sappia vederla.
E custodirla.

LUCIA CAPUZZI, giornalista e inviata della redazione esteri del quotidiano Avvenire, riserva da alcuni anni la sua collaborazione anche ai quaderni di Ore undici.
L’articolo di questo mese ci giunge dalla Terra Santa dove nel mese di aprile è stata inviata per il suo giornale.
Tra i suoi libri, Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani (con Antonella Mariani e Viviana Daloisi, 2023) e Un Continente in rivolta. L’America Latina tra profezia e speranza (2020), entrambi coedizioni Avvenire - Vita & Pensiero.