Il senso profondo e bello dell’amicizia
la convinzione di don Mario nasce dal vangelo: «non vi ho chiamati servi ma amici»
di Silvia Pettiti
È ora di partire, di lasciare questo luogo di sosta, di amicizia, di incontro. È stato un convegno un po’ più breve (un giorno in meno), al quale anche quest’anno si sono uniti volti nuovi accanto a tanti consueti ed alcuni ritrovati dopo tanti anni: è una caratteristica propria di Ore undici quella di essere “una casa con la porta aperta” da cui si può entrare, si può uscire, si può sostare sulla soglia. Di questo dobbiamo ringraziare don Mario, che così l’ha sentita e voluta, e anche Agnese, Lidia, Franziska che quotidianamente vivono e custodiscono l’esperienza dell’associazione.
Che cosa ci portiamo a casa? Ciascuno dei partecipanti può dare una propria risposta; le domande e gli interventi che hanno animato il dialogo con i relatori lo testimoniano abbondantemente.
Personalmente mi sono portata a casa due suggestioni profonde.
La prima è l’inquietudine a fronte di situazioni in cui amare è umanamente impossibile, per le evidenti, strazianti conseguenze di comportamenti, azioni, parole palesemente contrarie a ogni logica di giustizia, di rispetto umano, di bene; espressioni invece di male, odio, distruttività e distruzione verso le persone e le cose.
Se l’insegnamento del Maestro è univoco: «Se amate coloro che vi amano, che merito ne avete? Non fanno così anche i pagani? Ma io vi dico: amate anche coloro che vi odiano…», vivere questo insegnamento è quasi sempre umanamente impossibile. Ma due preziose indicazioni sono emerse dagli interventi dei relatori al convegno.
La prima, suggerita da Ferruccio De Molli, è quella di fermarci a “contemplare” l’altro, persona o popolo, giusto o ingiusto, ragionevole o irragionevole, sospendendo il giudizio, sostando nell’impotenza e nell’incomprensione, attendendo una qualche illuminazione come la sentinella attende il mattino, allargando e spostando lo sguardo su prospettive diverse, alzando grida e lacrime come preghiera…
La seconda, proposta da Nicola Colaianni, è quella di lasciare “farsi ostaggio” (secondo l’espressione di Lévinas che fratel Arturo citava spesso), come il samaritano sulla strada di Gerico: rendersi “prigionieri”, mettersi nelle mani dell’altro invertendo la prospettiva che ci vede nei panni di coloro che hanno qualche potere, armato o disarmato, per indossare quelli di chi è in balìa della volontà, delle decisioni, dell’autorità altrui. Per intuire le dinamiche che le sbarre di una prigione, esteriore o interiore, possono generare, per imparare la prossimità, per risvegliare le viscere di misericordia che abitano le nostre profondità.
La seconda suggestione, che in realtà è la premessa delle cose impossibili sopra accennate, è l’eco di un’immagine rimbalzata dal piano sociale, orizzontale, umano a quello verticale, spirituale. La “Pratique plusieurs” di cui ha parlato Manuele Cicuti (fondatore e coordinatore della cooperativa per disabili psichichi e autistici), ovvero l’offerta continuamente rinnovata di opportunità con cui stimolare e risvegliare il desiderio degli ospiti autistici, senza che quell’offerta si presenti come domanda che pretende risposta, mi pare sia qualcosa di simile (secondo ciò che ho e abbiamo appreso da don Carlo Molari) a quello che Dio fa con ciascuno di noi: ci offre continuamente, instancabilmente, generosamente doni di vita che noi, proprio come gli autistici e i poveri, solo occasionalmente, sporadicamente, casualmente siamo in grado di accogliere e assumere per il nostro stesso bene.
Mi pare di essere, nel rapporto con Dio e con la vita, molto simile a questi fratelli e sorelle che – su un piano orizzontale – ci appaiono tanto diversi, manifestamente limitati, imperfetti, inferiori… Esattamente come lo sono io di fronte alla sovrabbondanza dei doni della Vita.
Con la differenza, confortante e incoraggiante, che Dio non si stanca mai di offrire i suoi doni, che fa festa in noi per ogni minuscolo passaggio verso il Bene verso cui tendiamo non per volontà o merito, ma per sua gratuita “attrazione”.
Mi restituisce il paradosso di sapermi un mucchietto di nulla, polvere, erba che in un giorno fiorisce e dissecca, come dicono tanti Salmi, ma al contempo di essere creata poco meno degli angeli.
Mi fa avvertire una vibrazione che fa risuonare l’enormità della Vita.
Ed è attraverso quel varco che separa l’inadeguatezza umana dalla bontà e generosità divina che possiamo scegliere di abbandonarci con coraggio alla possibilità di amare, di coltivare relazioni, di desiderare, di essere operatori di pace.