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Due padri?

tratto da “Il Vangelo di Giovanni: analisi linguistica e commento esegetico” di Juan Mateos e Juan Barreto

37 «So bene che siete stirpe di Abramo, tuttavia cercate di uccidere me, perché il mio messaggio non vi entra in testa».

Riconosce che essi sono discendenti di Abramo, sebbene la frase risulti ironica dopo che li ha chiamati schiavi. Sottolinea la contraddizione che la loro condotta implica. Gloriarsi di essere stirpe di Abramo e, al tempo stesso, perseguitare mortalmente Gesù, sono atteggiamenti che non collimano. Essi, che pretendono di discendere da Abramo, non gli assomigliano. Sono assolutamente refrattari al messaggio di Gesù, ma­nifestato nella sua attività; non lo possono tollerare perché, ponendo il bene dell’uomo come valore assoluto, distrugge la loro idea di Dio e denuncia la corruzione della loro istituzione.

38 «Io propongo quel che ho visto personalmente presso il Padre, e così voi pure fate quello che avete appreso da vostro padre».

Tuttavia, Gesù non parla a nome proprio: il suo messaggio è quello di Dio stesso. Essi, pertanto, che si oppongono alla liberazione che egli realizza, non stanno dalla parte di Dio. Gesù insinua che hanno un altro padre, che non è Abramo e nemmeno Dio.

39-40 Gli risposero: “Nostro padre è Abramo”. Rispose loro Gesù: “Se foste figli di Abramo, realizzereste le opere di Abramo; invece cercate di uccidere me – uomo che vi ha proposto la verità appresa da Dio – Questo Abramo non lo fece.

Davanti all’insinuazione di Gesù si origina una nuova reazione, in cui essi affermano ancora una volta la propria ascendenza: Gesù li mette nuovamente di fronte al loro modo di agire. Essere figlio non è un fatto statico, ma dinamico; la comunità di sangue deve tradursi in una somiglianza di condotta. Se non si comportano come si comportava Abramo, non sono figli suoi; un figlio impara dal padre (5, 19). Nella tradizione giudaica, “le opere di Abramo” designavano la benevolenza, la modestia e l’umiltà. Ma fra i rabbini si affermava anche che chi non realizzava tali opere realizzava, invece, quelle dei suoi antenati, che erano idolatri. Se essi fanno il contrario di Abramo, dato che vogliono uccidere chi comunica loro la verità di Dio, devono essere figli di un altro padre. Si prepara l’accusa contenuta nel paragrafo seguen­te.
Procedono dal Nemico non da Dio

41a “Voi realizzate le opere di vostro padre”.

Con questa frase comincia lo sviluppo del tema già accennato (8, 38). Secondo la concezione del tempo, se essi non imitano Abramo è perché non hanno il Dio di Abramo; sono idolatri.

41b Gli replicarono allora: “Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre, Dio”.

I dirigenti comprendono perfettamente l’allusione di Gesù, poiché nei profeti l’idolatria si paragonava alla prostituzione. Essi negano total­mente di essere un popolo idolatra. Sono infine giunti a comprendere che c’è un Padre al di sopra di Abramo. Professano il loro monoteismo, la loro lealtà a Dio – e implicitamente alla sua alleanza e alla sua Legge (Dt 5, 7: “non avere altri dei miei rivali”) – che conforma la loro condotta a ciò che Dio vuole.

42 Replicò loro Gesù: “Se Dio fosse vostro padre, vorreste bene a me, perché sono qui procedendo da Dio; e neppure sono venuto per deci­sione mia personale, fu lui a inviarmi”.

Gesù ribatte sempre con lo stesso argomento: essere figlio di qualcuno significa somigliargli, comportarsi come lui. L’unica prova di essere figli è la somiglianza con il proprio padre. Se avessero appreso da Dio il loro modo di comportarsi, necessariamente vorrebbero bene a Gesù, che viene da parte di Dio; invece lo vogliono uccidere come espressione del loro odio (7, 7; 8,37.40). Non hanno gli stessi sentimenti né lo stesso modo di agire di Dio, dunque non sono figli di Dio.
Resta pertanto in piedi l’accusa d’idolatria. Per questo non riconoscono l’inviato di Dio né accettano la verità che propone loro a nome di Dio
(8, 40). Si comprende Gesù soltanto se si è disposti a realizzare il disegno di Dio (7, 17), ma essi non vogliono bene a Gesù e detestano la sua attività, che è la vera espressione di tale disegno. Chi ispira l’attività dei dirigenti non è, pertanto, il Padre che dà la vita, ma un altro dio.

43 “Per quale motivo non capite il mio linguaggio? Perché non siete capaci di ascoltare il messaggio mio”.

Già in varie occasioni gli avversari di Gesù hanno mostrato di non comprendere ciò che egli diceva loro (7, 35s; 8, 19.27.37). Tale impossibi­lità di comunicazione nasce dalla percezione di una minaccia nel mes­saggio che Gesù propone. L’amore per l’uomo, l’aiuto ai deboli, il dono di se stesso agli altri, sono concetti che essi rigettano, perché esigono la rottura con lo stato di cose ingiusto che sostengono e in cui occupano una posizione dominante. Essi sono gli uomini della situazione; Gesù è l’uomo del popolo (6, 42; 7, 52) che si mette dalla parte dei deboli, degli ignoranti, considerati maledetti dai farisei (7, 49). Gesù è la negazione stessa di tutto il loro sistema. Essi, per difenderlo, avevano creato un’ideologia che Gesù rifiuta (5, 17). Ha messo allo scoperto la loro ambiziosa sete di onori e prestigio (5, 43s), ha rinfacciato loro l’infedeltà a Mosè (5, 45-47) e alle Scritture (5, 39s); li ha accusati di non compiere la Legge che Mosè aveva dato loro (7, 19) e di giudicare senza giustizia (7, 24); ha predetto loro la rovina (7, 34), rendendoli responsabili del disastro che sovrasta il popolo (8, 21). Ha rinfacciato loro l’appartenen­za a uno stato di cose oppressivo, contrario al piano di Dio (8, 23); li ha chiamati schiavi, negando che siano figli di Dio (8, 42). Essi, attaccati al sistema che spalleggia i loro interessi, si chiudono al suo messaggio. Non possono sopportare il modo di parlare di Gesù. Pongono la loro condizione di privilegiati al di sopra dell’uomo, e ogni volta che Gesù lo ricorda loro, si esasperano e si difendono attaccandolo.

44a “Voi precedete da quel padre, che è il Nemico, e volete realizzare i desideri di vostro padre”.

Gesù continua ad applicare il suo criterio e a incalzarli: il loro modo di agire mostra di chi sono figli. Assecondano i desideri del loro padre, perché è proprio del figlio fare ciò che piace al padre (8, 29). I figli rassomigliano al padre. Essi vogliono uccidere Gesù: devono aver appreso ciò da un padre che sia omicida: il Nemico.
In questo vangelo si utilizza il termine “nemico” (diavolo) tre volte: la prima volta (6, 70) Gesù lo applica a Giuda; la seconda, in questo passo, lo riferisce ai dirigenti giudei, dei quali afferma che hanno come padre il “Nemico”; la terza (13, 2), l’evangelista non identifica il “nemico” con Giuda, ma lo presenta come ispiratore del tradimento di quest’ultimo (il Nemico aveva già indotto Giuda … a consegnarlo). Il termine diabolos, come è risaputo, è la traduzione greca dell’ebraico Satan (Satana), che appare in 13, 27: significa l’avversario/nemico, partico­larmente in contesto giudiziario, ma generalizzato più tardi come “il Nemico” dell’uomo, che procura la sua rovina.
In questo contesto, la menzione del Nemico come padre dei dirigenti giudei è in relazione con l’insinuazione di idolatria fatta da Gesù, cui essi hanno violentemente reagito. Il loro padre, da cui apprendono il modo di agire, è il dio cui servono, in opposizione al Dio vero, il Padre di Gesù, che gli insegna a portare a termine il suo disegno (5, 19ss). L’opposizione stabilita fra i due padri-dio in questo secondo e solenne operato di Gesù nel tempio corrisponde alla denuncia fatta la prima volta, in occasione della Pasqua che inaugurava la sua attività in Giudea. Lì Gesù li accusava di aver trasformato la casa di suo Padre in una casa di commercio (2, 16). Essi avevano eliminato dal tempio la presenza di Dio, sostituendola con l’interesse economico. Questo è il dio del tempio che li rende idolatri. È per questo che, ponendo al centro stesso di questa sezione la menzione del Tesoro (8, 20), l’evangelista sta contrapponendo Gesù, il nuovo santuario (2, 17; 7, 37-39), e il Tesoro, santuario del tempio idolatrico, dove è alloggiato il dio e padre dei dirigenti. In quel recinto cultuale convivono momentaneamente la presenza del Padre in Gesù, e quella del Nemico nel Tesoro. I giudei devono decidersi per l’uno o per l’altro. Con l’intento di uccidere Gesù (8, 59) hanno fatto la loro opzione definitiva.
Si comprende adesso perché Gesù, proponendo il suo esodo, vale a dire la sua comunità alternativa, metta a prova l’atteggiamento dei suoi, rappresentati da Filippo, sul tema del denaro. La sua comunità non deve trovare nel sistema economico sfruttatore la soluzione al proble­ma della sussistenza (6, 5ss).
Nella stessa sezione dei pani Gesù qualificò Giuda come “nemico” (diavolo). Quanto esposto in precedenza chiarisce il significato di que­st’appellativo, che si esplicita in 12, 6: era ladro.

44b “Egli è stato omicida fin dal principio e non è mai stato nella verità, perché in lui non c’è verità; quando parla, la menzogna gli sgorga dal di dentro, perché è menzognero: il padre della menzo­gna”.

Gesù allude al racconto delle origini, secondo cui il serpente (Gn 3, 1 ss), identificato più tardi con il “diavolo/nemico” (Sap 2, 24), causò la morte dell’uomo (omicida) con l’inganno. I dirigenti, che hanno come padre il Nemico (diavolo), rappresentano la stirpe del serpente (Gn 3, 15). Ma Gesù, a sua volta, indentifica il Nemico dell’uomo con il denaro, anima occulta ma onnipotente dell’istituzione corrotta. All’ordi­namento basato sul potere del denaro egli attribuisce la malvagità e l’ostilità contro l’uomo, proprie del serpente primordiale.
Essi sono omicidi (8, 40: cercate di uccidere me – uomo), come lo è il Nemico, che incarnato in sistemi oppressori ha sacrificato sempre (dal principio) l’uomo all’interesse economico. Essi sono menzogneri (8, 55), perché il Nemico che li ispira lo è e lo è sempre stato.
Questo ordina, e i dirigenti che lo rappresentano propongono la menzogna, contraria alla verità esposta da Gesù su incarico del Padre (8, 40). La verità si riferisce a un modo di agire che favorisce la vita (8, 31 Lett.); la menzogna, pertanto, è quella che favorisce la morte. Presentare come un valore ciò che mutila e diminuisce l’uomo: questa è la menzogna. La verità di Gesù è pienezza di vita e libertà; la loro menzogna è schiavitù e soppressione della vita. Insegnandola come volontà di Dio, amputano la tendenza fondamentale dell’uomo, svuotan­dolo del desiderio di pienezza umana obiettivo del disegno creatore. Gli fanno accettare come verità un dinamismo suicida. Questo risponde all’attività del serpente in Gn 3, 1-5; egli inganna e causa la morte appunto proponendo l’idea falsa di un Dio tiranno e rivale dell’uomo. Gesù assicurava che quanti avessero messo in atto il suo messaggio avrebbero scoperto la verità (8, 32). Denuncia il sistema giudaico come menzogna e crimine istituzionalizzati. Ma l’accusa di Gesù implica inoltre che chiunque si identifichi con un ordinamento ingiusto si rende complice di tale menzogna e omicidio.
Il Nemico non dirà mai la verità. Incarnato nel Tesoro, l’accumulazione sfruttatrice, si oppone alla condivisione, segno e veicolo dell’amore (6,11 Lett.). È, per essenza, la negazione dell’amore creatore.
In 7, 18 Gesù aveva proposto il criterio per giudicare della validità di una dottrina: chi parla per conto proprio cerca la sua gloria; invece, chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato, questi merita fiducia e in lui non c’è ingiustizia. È falsa la dottrina di colui che cerca di promuovere i suoi propri interessi. Ne consegue che l’istituzione basa­ta sull’interesse economico non possa proporre che menzogna. Tale ordinamento è radicalmente ingiusto: solo chi è libero dall’ingiustizia può dire la verità (7, 18b).

45 “A me invece, giacché dico la verità, non credete”.

Essi, che insegnano la menzogna, rifiutano di accettare la verità (8, 40), perché essa dimostra la falsità in cui vivono e che praticano, e denun­cia le loro vere motivazioni. Questa frase è implicitamente parallela con 5, 43: io sono venuto a nome di mio Padre e non mi accettate; se un altro venisse a nome proprio, lo accettereste. Egli dice la verità appunto perché non viene a nome proprio né cerca la sua gloria (5, 41). Gesù condanna implicitamente l’atteggiamento dei suoi avversari. Se egli giungesse cercando di soddisfare la propria ambizione affermando se stesso, lo accetterebbero; allora direbbe una menzogna, come loro (8, 53).

46a “Chi di voi mi può rinfacciare alcun peccato?”.

La sfida di Gesù mostra la sua sicurezza. “Peccato” significa per lui opposizione al disegno di Dio, ingiustizia contro l’uomo (7, 18; 8, 23 Lett.). Secondo questa norma di moralità, Gesù muta radicalmente il concetto di peccato. Essi, invece, propongono la Legge come norma assoluta al di sopra del bene dell’uomo, interpretata inoltre secondo i loro propri interessi (cfr. 7, 18.24). Gesù afferma che in lui non c’è ingiustizia, appunto perché non cerca la sua gloria né il proprio interesse; egli è sempre stato a favore dell’uomo e li sfida a provare il contrario. Sottolinea la coerenza inappuntabile fra il suo messaggio e la sua condotta; non c’è discrepanza fra il suo dire e il suo operare. Per questo la loro incredulità non ha scusanti (cfr. 15, 22.24), né ha fon­damento la persecuzione di cui lo fanno oggetto (5, 18; 7, 1.19ss).

46b “Se dico la verità, per quale motivo voi non mi credete?”.

Malgrado tutto, essi non credono alla verità che Gesù propone loro. Hanno la loro propria “verità”, con cui mantengono una coerenza che li porterà ad ucciderlo. Ammettere un principio assoluto al di sopra del bene dell’uomo porta inevitabilmente a sacrificarlo sugli altari di tale principio (cfr. 19, 7). Quando la sua ammissione viene vista come naturale, l’oppressione diventa connaturale e logica. Se inoltre il princi­pio si identifica con la volontà di Dio, questa “verità” rende complice dell’oppressione Dio stesso. È la perversione dell’idea di Dio, che Gesù denuncia come “menzogna”. Dio, il Padre, è il principio di vita; cerca incessantemente il bene dell’uomo (5, 17) fino a dare suo Figlio perché l’uomo abbia vita (3, 16); lo dimostrerà Gesù con la propria morte.

47 “Chi procede da Dio ascolta le esigenze di Dio; per questo voi non ascoltate, perché non procedete da Dio”.

Gesù conclude dando la ragione ultima dell’incredulità dei dirigenti: malgrado le loro pretese di avere Dio per padre (8, 41b), non procedono da Dio; ne è prova che non ascoltano le sue esigenze. “Le parole/ esigenze di Dio” era espressione consacrata per designare i comandamenti dati per mezzo di Mosè. Già in 3, 34 si era detto di Gesù: l’inviato di Dio propone … le esigenze di Dio; ne è prova che esse comunicano lo Spirito senza misura. Perciò le esigenze si identificano con il messaggio (8, 31.37.43) e con la verità che emerge nell’esperienza che dà lo Spirito (8, 31-32 Lett.), e rendono caduche quelle della Legge antica. Comunicando lo Spirito, collocano l’uomo sulla linea dell’amore che fruttifica nell’attività. Le esigenze non fanno altro che formulare il dinamismo dello Spirito-amore che ha fatto nascere da Dio (1, 13; 3, 5s). Essi, il cui movente è il Nemico, Fanti-amore, continuano a non ascolta­re Dio (5, 37). Non riconoscono la voce dello Spirito (3, 8 Lett.) perché non procedono da Dio.