Per Gesù non esistono incontri imbarazzanti o sconvenienti, solo incontri umani.
Così, maschio ebreo acclamato quale maestro in Israele, lo troviamo seduto presso il pozzo di Giacobbe a dialogare con una donna samaritana di facili costumi. È mezzogiorno: soltanto una donna “di malaffare” va ad attingere a quell’ora, nella calura cui unica compagna è la polvere.
Gesù è un artista di incontri, soprattutto di quelli che scandalizzano i benpensanti: accanto alla samaritana ci vengono in mente la donna siro-fenicia (cf. Mc 7,24-30), l’adultera condannata a lapidazione (cf. Gv 8,1-8), l’uomo che vive tra i sepolcri (cf. Mc 5,2-17), il cieco alle porte di Gerico (cf. Lc 18,35-43)… Guardiamo allora a Gesù per metterci alla sua scuola e crescere nell’arte dell’accoglienza, dell’ascolto e di una parola che accresca la vita. Sempre.
“Dammi da bere” (v. 7). Gesù non si presenta come un maestro, ma come un uomo nel bisogno, mancante di qualcosa di vitale: c’è forse bene più prezioso di una sorsata d’acqua in mezzo a una terra arida e sassosa? Con la sua forte valenza simbolica, la sete del corpo ci rimanda subito a una sete più profonda: di vita, di senso, di relazione. L’acqua materiale – pur indispensabile – servirebbe a poco senza il ristoro di una parola amichevole e del riconoscimento della propria e altrui umana dignità.
Dichiarandosi non bastante a se stesso, Gesù, che non ha preso la posa del maestro, si rivela in realtà rabbi autorevole. Maestro, infatti, è colui che fa crescere l’altro, che gli fa spazio perché esca alla luce: Gesù dà forma allo spazio di una crescente intimità, uno spazio in cui la donna ha diritto di parola e la sua storia ha diritto di abitare senza giudizio.
“Dammi da bere” perché non posso donarmi la vita da solo, anch’io, come te, posso soltanto riceverla a piccoli o grandi sorsi da ogni incontro con altri occhi, altre mani e altre storie. “Dammi da bere” perché non sono un palmo sopra di te, ma là dove tu sei. Ovunque tu sia, io sono laggiù.
“Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva … chi berrà dell’acqua che io gli darò non avrà più sete in eterno” (vv. 10.13). La donna si è stupita dell’attenzione di Gesù nei propri confronti, ha reagito incuriosita. A Gesù basta questa piccola breccia per scendere più in profondità, dritto al cuore della donna e della sua sete. Con intelligenza e delicatezza, ma anche con decisione, Gesù stuzzica la donna per porla di fronte a se stessa, alla propria verità. Perché Gesù desidera che vengano alla luce le domande che si agitano confuse in lei: quale desiderio mi brucia dentro? Che cosa sogno per la mia esistenza? Che cosa vado cercando mentre ogni giorno cammino nella polvere fino al pozzo, per la Scrittura simbolo della legge di Dio? Ovvero, in fin dei conti, chi sono e dove sta andando la mia vita? In chi o che cosa ripongo la mia fiducia, la mia speranza?
“Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui” (v. 16). Creato uno spazio di accoglienza in cui può emergere la domanda sul desiderio profondo che abita il cuore, Gesù spinge la donna verso la risposta. Gesù sa che la donna ha avuto cinque mariti e ora ha un nuovo compagno, ma vuole che sia lei stessa a riconoscerlo: non certo per accusarla di peccato, ma affinché guardi in faccia la sua ricerca di amore, condivisione, consolazione. E affinché trovi una strada non effimera per soddisfarla. In tutte queste relazioni, infatti, Gesù non vede una questione morale, ma discerne un dolore disperato. E se indica alla donna la possibilità di una vita diversa è innanzitutto in ragione della sua dignità: troppo grande e preziosa per venire ancora calpestata e sfruttata. Gesù non dà mai lezioni di morale, Gesù indica la via di una vita all’altezza di questo nome.
Ora che la donna si è svelata e lasciata accogliere nella sua miseria, Gesù si svela e si lascia accogliere nella sua verità di Messia atteso (cf. v. 26). Così la sete che abita la miseria umana e la sete che dimora nella misericordia del Signore si incontrano: la sete sembra essere la condizione dell’autentico faccia a faccia tra l’umano e il suo Signore. La conseguenza dello svelamento di Gesù è una corsa, segno di una vita ridestata nel cuore della donna che, dimentica dell’anfora e del bisogno di acqua materiale, corre a raccontare la meraviglia di un incontro che l’ha trasformata. Lei che fuggiva dalla gente della città, marginale perché considerata peccatrice, ora è voce che canta la vita per le strade di Sicar. E in questo canto ripete due volte che Gesù “mi ha detto tutto quello che ho fatto” (vv. 29 e 39). A ricordarci che Gesù non ci chiede mai di rinnegare la nostra storia, bensì di leggerla insieme a lui nella verità e con amore. Del resto, dove altro potremmo incontrare il Dio che ha voluto farsi carne, il Dio-con-noi, se non dentro la nostra storia, con i suoi amori randagi?
Chiara