Il 20 aprile 1993, nel palazzo vescovile di Molfetta, si spegneva mons. «Tonino» Bello, all’età di 58 anni. Aveva ricevuto gli ordini minori a Bologna, da mons. Giacomo Lercaro e, nel 1962, aveva accompagnato il vescovo di Ugento, la diocesi in cui era incardinato, alla sessione di apertura del concilio Vaticano II.
Tutto il suo servizio episcopale (viene eletto vescovo il 10 agosto 1982) è stato testimonianza di amore oblativo e incondizionato.
Lo ricordiamo, nel trentesimo anniversario della morte, con un intervento del suo segretario personale, don Gianni Fiorentino, tenuto il 21 aprile 2016 in occasione della visita di papa Francesco nei luoghi di don Tonino. (Per approfondire: www.dontoninovescovo.it)
L’esperienza di suo segretario personale mi ha dato la possibilità di conoscere molto bene la sua alta statura umana, culturale, spirituale e pastorale.
Sicché ogni volta che devo parlare di lui, tremo al pensiero di poter sbiadire la forza profetica delle sue scelte, dei suoi scritti, dei suoi gesti. Don Tonino è stato un “indice puntato” su Gesù Cristo! Un uomo, un cristiano, un prete, un Vescovo innamorato di Gesù Cristo: questo è don Tonino! A partire da qui possiamo provare a capire la sua personalità e il suo ministero; la sua attenzione ai poveri, il suo impegno per la pace, la sua carica profetica, la sua incredibile riserva di speranza. Questa è la chiave per entrare nel suo cuore. Diversamente vi gireremo attorno con il rischio di non capire più di tanto.
Don Tonino è stato il Vescovo “in mezzo” al suo popolo. Sì, “in mezzo”! Lo ripeteva spesso: compito del pastore non è quello di stare avanti o dietro, ma in mezzo! Per chi l’ha conosciuto veramente, don Tonino rimane, infatti, l’icona vivente del “buon pastore” che conosce le sue pecore.
E conoscere nella Bibbia è sinonimo di amare, amare non in maniera astratta ma concreta. Don Tonino, dunque, è il Vescovo pastore! Cosa spinge don Tonino a vivere il suo ministero con questa passione divina e umana? Il suo desiderio ardente di ripetere Gesù nella sua vita.
Gesù che fa? Entra nella sinagoga e nel Tempio; si ritira in luoghi abitati dal silenzio: la montagna, il lago, il deserto. Ma Gesù entra anche nelle case della gente. Anzi, dovremmo dire, soprattutto nelle case. Entra nei luoghi dove la gente vive, lavora, soffre, incontra la gente per la strada. Stare con la gente per lui non è perdita di tempo, ma kairos (cioè grazia, tempo di salvezza).
Amare non in maniera astratta, ma concreta e quindi a tutte le ore! Sta qui la differenza. È il caso di quella ragazza che bussa al portone dell’Episcopio di notte, perché è stata cacciata di casa. Ecco che fa: telefona alla prima e poi alla seconda e poi ancora alla terza casa di suore di Molfetta perché l’accolgano fino a quando non si trova una soluzione defnitiva, e tutte e tre le volte si sente dire: «Eccellenza devo prima chiedere alla Madre Provinciale…». Non è difficile immaginare come va a fnire la storia: la ospita in casa sua.
Questo era lo stile (o come amava chiamarlo lui, il look) di don Tonino: uno stile fatto di incontri veri, dove non vi erano fltri di alcun genere.
Per questo, per lui era fondamentale ricordare i nomi. Già da parroco imparava i nomi di tutti i suoi parrocchiani, sicché quando questi erano davanti a lui per ricevere la comunione, diceva: Antonio, Laura,
Gianni… il Corpo di Cristo!
Da Vescovo, durante la preghiera eucaristica, mandava a memoria i nomi di tutti i ragazzi che aveva cresimato. E con i nomi ricordava le storie, i legami, il passato e i sogni di ciascuno. Privilegiava così le storie di coloro che apparentemente sembravano vinti (le cosiddette pietre di scarto). I perdenti della vita diventano così la chiave di lettura per parlare di una storia in cui c’è posto per tutti. Visita e frequenta i luoghi in cui la gente vive e qui, inevitabilmente, incrocia gli ultimi.
Vorrei concludere questa mia testimonianza richiamando l’attenzione su un tema a lui particolarmente caro, il potere dei segni, e lo faccio cedendo la parola allo stesso don Tonino: «Non abbiamo più i segni del potere. Se noi potessimo risolvere tutti i problemi degli sfrattati, dei drogati, degli immigrati, i problemi di tutta questa povera gente, se potessimo risolvere i problemi dei disoccupati, allora avremmo i segni del potere sulle spalle. Noi non abbiamo i segni del potere, però c’è rimasto il potere dei segni, il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce della società contemporanea, collocare dei segni vedendo i quali la gente deve capire verso quali traguardi stiamo andando e se non è il caso di operare qualche inversione di marcia: ecco il potere dei segni e i segni del potere».
UNA FESTA DIFFICILE di don Tonino Bello
«Sì la Pentecoste è una festa difficile. Difficile perché provoca l’uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così.
Il complesso dell’ostrica. Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. (…) Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci.
C’è poi il complesso dell’una tantum. È difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada.
Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi. (…)
Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per metterci
sulla strada subendone i pericoli.
E c’è, infine, il complesso della serialità. Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I gesti promossi in serie. (…) C’è un livellamento che fa paura. L’originalità insospettisce. L’estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. (…) Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all’accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifca e compone le ricchezze della diversità. La Pentecoste vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro».
(da Alla finestra la speranza. Lettere di un vescovo, Paoline)